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Cosa resta (a noi) della Via della Seta. Parla il prof. Andornino

A due anni dalla firma del MoU per la Via della Seta Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale all’Università di Torino, traccia un bilancio di luci e ombre. Cooperare si può, e si deve, senza accelerazioni pericolose per l’alleanza Nato. Ecco una road map

A due anni dalla firma italiana del memorandum per la Via della Seta cinese si può tracciare un bilancio al riparo da liricismi e polemiche sterili? Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale all’Università di Torino e direttore del TOChina Hub, è convinto di sì. Mentre la Farnesina, con un documento pubblicato in anteprima da Formiche.net, lavora al rinnovo di un accordo di cooperazione con il governo cinese in vigore da undici anni, viene da chiedersi come si possano impostare le relazioni bilaterali evitando rotture improvvise ma anche passi avanti azzardati che incrinerebbero i rapporti con gli Stati Uniti. Ecco una road map.

Professore, al G7 e al summit Nato la Cina è stata la convitata di pietra. Con Joe Biden alla Casa Bianca assisteremo a un inasprimento dei rapporti con Pechino?

La politica di “engagement” verso la Cina perseguita dalle amministrazioni statunitensi sin dai tempi di Nixon è entrata in crisi da tempo. La strategia di ri-bilanciamento verso l’Asia enfatizzata già dalla prima amministrazione Obama aveva tra i suoi artefici Kurt Campbell, che oggi è tornato nell’amministrazione USA sotto Biden in una posizione di particolare rilievo. Senz’altro osserveremo una competizione più pronunciata e sistematica, che credo sarà prolungata nel tempo.

Anche il premier italiano Mario Draghi ha aperto a una “revisione” del memorandum sulla Via della Seta. A due anni dalla firma, si può considerare una scommessa sbagliata?

Ho sempre avuto dubbi su un accordo che, per esplicita ammissione del governo dell’epoca, doveva consentire all’Italia di ottenere benefici economici in cambio di un riconoscimento politico. I primi non sono pervenuti, se non in minima parte, per molte e diverse ragioni non esclusivamente collegate alla pandemia. Il secondo è aleatorio, come si sta vedendo, e ha alimentato aspettative che sapevamo non essere coerenti con il riassestamento degli equilibri politici globali. Non mi sembra, nel complesso, che quel Memorandum, così impostato, abbia dunque posto la relazione bilaterale su un piano di credibile sostenibilità.

Recedere da questi memorandum aprirebbe a uno strappo con Pechino?

Senza dubbio, ingenerando costi per il nostro Paese speculari rispetto a quelli prodotti prima con la sua firma. Un esito più che prevedibile e che è la ragione per cui vi fu chi si astenne dal prendere parte alla “Task Force Cina”, nonostante la popolarità che l’iniziativa riscosse all’epoca. Vi era un chiaro problema di fondamentali.

Che benefici ha portato all’Italia la firma di quel memorandum? Gli Stati Uniti hanno sempre espresso preoccupazioni per il primo Paese G7 ad aver rotto le fila.

In realtà dei benefici vi sono stati, dalla maggior facilità di accesso alle controparti cinesi, a un procedere più spedito di dossier complessi. Questo senza contare il sostegno, tangibile al di là delle polemiche, ricevuto nelle primissime settimane della crisi pandemica nel marzo 2020. È chiaro che questo non è un beneficio che potesse essere stato previsto un anno prima, al momento della firma del Memorandum, ma non deve comunque essere dimenticato. Il problema è che simili accordi richiedono basi politiche solide per poter dispiegare i propri benefici in un lungo arco di tempo, attraverso successivi negoziati su singole iniziative. L’Italia, con la sua vita politica idiosincratica e priva di agende bipartisan anche sulle grandi questioni internazionali, non è nelle condizioni di valorizzare in modo coerente operazioni così delicate, che finiscono per apparire velleitari “giri di valzer”.

Su quali fronti si può collaborare con la Cina senza venir meno agli impegni con gli alleati?

Lo stesso alleato statunitense, così come i partner europei, riconoscono che occorre collaborare con la Cina là dove si può. Vengono sovente citate le politiche per la salvaguardia dell’ambiente, ad esempio. Volendo citare un secondo ambito, sottolineerei l’istruzione: si può e si deve lavorare affinché le tensioni politiche non compromettano gli spazi di conoscenza reciproca e di maturazione di cittadini realmente cosmopoliti, in Italia come in Cina. Che non vuol dire allineati sul profilo valoriale, ma consapevoli e responsabili. Mi lasciano sgomento, in questo senso, le sanzioni cinesi a carico di singoli ricercatori e centri di ricerca, che costituiscono una pericolosa escalation proprio nell’ambito delle relazioni tra i popoli e le coscienze. Trovo anche che si stia facendo troppo poco per facilitare la ripresa delle mobilità in sicurezza di studenti vaccinati: ci servono molti più profili capaci di gestire con competenza relazioni cross-culturali complesse come quelle tra Italia e Cina.

Di cooperazione fra Italia, Europa e Cina si occuperà la 15a edizione della TOChina Summer School, di cui Formiche è media partner. Di cosa si tratta e perché ce n’è bisogno ora?

Da 15 anni la Summer School TOChina offre strumenti avanzati per riflettere sulle agende di ricerca d’avanguardia che riguardano la politica interna, la politica estera e l’economia politica della Cina contemporanea. È una piattaforma intorno a cui si trovano docenti e studenti, in genere post-graduate, da tutto il mondo, Cina compresa. Ci si confronta sulle dinamiche politico-economiche in atto, sui trend di lungo periodo, sui metodi di ricerca sul campo, e sul profilo etico dello studio di un paese nei confronti del quale occorrono indipendenza di giudizio, rigore metodologico ed empatia cognitiva.



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