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L’export militare e lo sfratto dalla base di Al Minhad. Scrive Michele Nones

Lo sfratto dato dagli Emirati Arabi alla nostra base di Al Minhad mostra quanto pesanti possano essere le conseguenze di decisioni sull’export di armamenti per i nostri interessi militari, economici, finanziari e politici. Ci sono tre modi (concreti) per correggere la rotta. Il punto di Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali

Se qualcuno in Italia si illudeva che la decisione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e dei suoi collaboratori di revocare le autorizzazioni alla vendita di bombe di bombe di aereo agli Emirati Arabi e all’Arabia Saudita, pubblicizzata con grande clamore mediatico lo scorso 29 gennaio, non portasse a pesanti conseguenze, è ora costretto a un brusco risveglio.

Dopo una serie di avvertimenti, in parte informali e in parte espliciti (anche se garbati), si è arrivati l’8 giugno al divieto di sorvolo imposto dagli Emirati all’aereo militare da trasporto con a bordo i giornalisti al seguito del ministro della Difesa in occasione della fine della nostra missione in Afghanistan.

Ma ora, molto più grave, è arrivato lo sfratto dato dagli Emirati alla nostra Forward Logistic Airbase di Al Minhad che abbiamo utilizzato a dal 2015 per assicurare i collegamenti con l’Afghanistan, dopo aver utilizzato dal 2002 al 2015 quella di Al Bateen. Al di là delle conseguenze organizzative e finanziarie (per fortuna all’inizio di luglio una buona parte degli uomini e dei materiali della nostra missione saranno già rientrati), è forte messaggio sul piano politico: siamo diventati ospiti poco graditi e, come tali, è quasi certo che il livello della collaborazione bilaterale sia destinato a raffreddarsi ulteriormente.

Chi ha a cuore i nostri interessi nazionali dovrebbe, quindi, domandarsi quanto sono importanti per l’Italia questi due Paesi sul piano politico, economico e finanziario. Se, come è evidente, la risposta è che lo sono molto, la seconda questione è cosa potremmo fare per uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo incoscientemente infilati. Se, poi, volessimo anche far tesoro dell’esperienza, dovremmo ricostruire i vari passaggi di questa vicenda ed assumere i correttivi necessari per evitare che possa ripetersi.

Il primo punto su cui intervenire è l’autorizzare subito la fornitura delle parti di ricambio per la pattuglia acrobatica emiratina, scusandoci per via amichevole per l’assurdo ritardo della decisione (per fortuna alcuni nostri vertici militari godono ancora di stima personale nell’area).

Il secondo punto su cui intervenire è, quindi, quello della sostituzione della revocare delle autorizzazioni con il rinnovo delle sospensioni decise nel luglio 2019. La tesi che dopo diciotto mesi questo non sarebbe giuridicamente possibile è opinabile, ma, soprattutto, è facilmente superabile dal momento che la RWMI ha formalmente dichiarato di essere disponibile ad accettare coscienziosamente un’eventuale decisione del governo italiano. A questo risultato si potrebbe arrivare in tre modi.

Primo, con il riconoscimento della validità del ricorso amministrativo, anche tenendo conto che la procedura prevista dalla legge non sembra essere stata rispettata e che la decisione della revoca è stata presa da un governo dimissionario in carica solo per il disbrigo degli “affari correnti”. Secondo, con una nuova decisione del ministero degli Esteri (a valle di un confronto in sede di Governo), anche motivata in base al principio dell’autotutela dell’amministrazione (l’indennizzo da corrispondere alla società potrebbe arrivare a 250 milioni di euro). Terzo, con la ricostituzione, utilizzando il primo decreto legge disponibile, del Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa previsto dall’articolo 6 della legge 185/90 sul controllo delle esportazioni militari e cancellato improvvidamente tre anni dopo per attribuirne poi, dopo ulteriori sei anni, le funzioni al ministero degli Esteri “d’intesa” con la Difesa e lo Sviluppo economico; alla sua prima riunione il Comitato potrebbe prendere una decisione collegiale che supererebbe quella unilateralmente già assunta.

Quest’ultima sembra essere la strada maestra perché con una sola decisione si porrebbe per lo meno un tardivo e parziale rimedio al peggioramento delle relazioni con i due più importanti Paesi del Golfo Persico (da accompagnare con una più generale ricucitura politica, diplomatica, militare, economica e industriale). E si garantirebbe ai nostri partner attuali e potenziali che in futuro le linee della nostra politica esportativa e le principali decisioni in materia saranno sempre affrontate considerando insieme i molteplici aspetti della collaborazione che offriamo sul piano della difesa e della sicurezza. Questa sarebbe importante anche per riuscire a concretizzare una strategia di accordi governo-governo che consentirebbe di spostare la collaborazione nel settore della difesa e sicurezza dal piano puramente industriale e commerciale a quello strategico e militare. Ciò, ovviamente, presuppone che l’affidabilità del nostro paese sia riconosciuta a livello internazionale al di là di ogni ragionevole dubbio.



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