Too small to win, troppo piccoli gli attuali partiti per vincere la partita della ripresa. Approfittando della bussola in mano a Draghi, potrebbero fare un salto di qualità e mettersi in sintonia con le necessità della governabilità indispensabile. Senza “decreti semplificazione” ma con la fatica della politica. Proprio lei, questa sconosciuta e vilipesa capacità di trovare le soluzioni
Ma cos’è questa voglia bulimica di Federazione che agita destra e sinistra come mare in tempesta? In verità più che mare bisognerebbe parlare di piscina e neppure olimpica, visti i rapporti di forza tra i singoli partiti e dentro i rispettivi contenitori. Ma tant’è, e anzi forse proprio per questo. Cioè per la necessità di agglutinarsi in vista dei prossimi passaggi politici, primo fra tutti l’elezione del nuovo Capo dello Stato, e poi la gestione del Pnrr: sfida europea compresa.
L’idea che simili pesi possano poggiare sulle gracili spalle di forze politiche che al massimo si collocano sul 20 per cento dei consensi, appare fatica di Sisifo. O assomigliano a un’asticella troppo alta da saltare.
Detto questo, comunque sorprende il fatto che non appena Matteo Salvini ha gettato il sasso nello stagno del centrodestra avendo a fianco addirittura il Cavaliere per siglare una intesa che in prospettiva potrebbe portare ad un unico partito conservatore italiano (Giovanni Toti, che è contrario, parla dei repubblicani italiani sulla falsariga di quelli americani); dalla sua parte sono piovute critiche a non finire mentre a sinistra una figura di spicco come Matteo (un altro!) Ricci, sindaco di Pesaro, coordinatore dei primi cittadini dem e presidente di Ali, l’associazione delle autonomie, propone lo stesso schema “per superare la frammentazione a sinistra” e avviare la competizione con il M5S di Giuseppe Conte.
Il punto di fondo appare il medesimo per ambedue i contenitori: per guidare il Paese occorre un partito che raccolga almeno, o meglio ancora, un terzo dei voti degli elettori. Una volta c’erano Ds più Margherita più cespugli da una parte; FI, An e Udc dall’altra. Subito dopo sono arrivati Pdl e Pd: il primo è finito in mille pezzi e il secondo annaspa su percentuali non all’altezza delle ambizioni, indipendentemente da chi lo guida.
Già questo dovrebbe indurre a cautela: fondersi, federarsi, confluire nella politica italiana non porta bene: i più anziani possono perfino ricordare il disastro del Psu. E allora perché tanta voglia di ripercorrere una strada che finora ha provocato a chi l’ha intrapresa molte più amarezze che gioie?
La risposta è quella di prima: too small to win, troppo piccoli gli attuali partiti per vincere la partita della ripresa e dello sviluppo grazie alle risorse che ci arrivano dall’Europa.
Però bisogna evitare gli errori del passato, quando sono stati costruiti a tavolino soggetti politici o coalizioni elettorali che dopo aver prevalso nelle urne, si sono spiaggiate sulla battigia della governabilità. Quel che era chiaro allora e che minaccia di mancare anche adesso è l’amalgama dei rispettivi impianti programmatici. O per meglio dire: la disparità su ideali e visioni del Paese che deve venire. Se poi si vogliono proprio aprire le finestre dei ripostigli ideologici, è giocoforza riassumere la questione in tre parole: manca la politica.
Basta un rapido sguardo per convincersene. A destra, le distanze ideali tra FdI e Lega sono contenute, mentre abissali sono quelle riguardanti la governabilità attuale rappresentata dal sostegno all’esecutivo di SuperMario Draghi e la collocazione europea, con Forza Italia nel Ppe della Merkel, Salvini al contrario agganciato ai sovranisti euroscettici e la Meloni presidente di un gruppo che col Ppe non vuole prendere neppure un caffè.
Idem sul fronte opposto, con il Pd di Enrico Letta europeista e sostenitore di una intesa con i Cinquestelle versione Conte e i “cespugli” collocati su rive opposte: Renzi che del M5S non vuol sentir parlare e Carlo Calenda che non è nella larga maggioranza che fa da piedistallo all’inquilino di palazzo Chigi.
Come è possibile unire ciò che appare così diviso? E infatti non si unisce. La Federazione salvinian-berlusconiana ha provocato forti reazioni negative nel corpaccione del partito del Cavaliere a partire dalle ministre Carfagna e Gelmini. A sinistra, l’invito di Ricci è rimasto lettera morta. Con una specificazione però. Perché anche in questa occasione è dai territori che viene lo stimolo a rivedere toni e atteggiamenti dello stato maggiore. Ed è curioso che pure stavolta a sinistra l’impianto propositivo sia stato in qualche modo mutuato dal fronte opposto.
Era già accaduto con il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, schieratosi a favore del partito “aperturista” guidato dal leader della Lega. Se la periferia è più avanti del centro, colpisce che lo sia su terreni solvati dal centrodestra a trazione salviniana. Resta che di fronte a evidenti e crescenti necessità che coinvolgono i bisogni dei cittadini e le aspettative delle giovani generazioni, le risposte sono o frenetiche e abborracciate (centrodestra) oppure dismesse con una scrollata di spalle (centrosinistra). Magari, approfittando della bussola che ha saldamente in mano il Timoniere di Palazzo Chigi, partiti e movimenti potrebbero fare un salto di qualità e mettersi in sintonia con le necessità della governabilità indispensabile. Senza “decreti semplificazione” ma con la fatica della politica. Proprio lei, questa sconosciuta e vilipesa capacità di trovare le soluzioni.