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Geopolitica rock. Se l’Italia riparte (anche) coi Maneskin

Una dimostrazione di soft, anzi di rock power. La vittoria agli Eurovision e l’ascesa dei Maneskin nelle classifiche mondiali sono anch’essi un segno tangibile della ripartenza italiana all’estero. E il prossimo anno il Paese ha un’occasione imperdibile. Il commento del prof. Igor Pellicciari (Università di Urbino/Luiss)

Tra le espressioni più diffuse (e fastidiose) di un certo provincialismo culturale vi è il dare spazio ad un evento solo quando ci tocca direttamente – ignorandolo in caso contrario.

Fenomeno trasversale nei campi più disparati dell’informazione, è molto visibile in quello sportivo. Quando l’enfasi sull’atleta nostrano giunto terzo in una gara internazionale, porta a trascurare il nome dei primi due classificati.

Vi è il legittimo sospetto che molta dell’inedita attenzione riservata dai media italiani all’Eurovision Song Contest (acronimo Esc) di quest’anno sia conseguenza del fatto che tra i favoriti vi fossero i Maneskin. Che poi hanno meritatamente trionfato.

È innegabile che negli ultimi 30 anni, dalla vittoria di Toto Cotugno nel lontano 1990, gli italiani abbiano in larga parte ignorato l’esistenza stessa di una competizione canora per nazioni europee, completamente assente dai media nazionali.

Oggi che si è guadagnata (per poco) i loro titoli di apertura, la vittoria del gruppo rock romano viene trattata come notizia da sezione spettacolo\musica, alla stregua di un Festival di Sanremo oltre-confine.

Senza interrogarsi su eventuali messaggi e ricadute geo-politiche collegate in generale all’evento e in particolare all’edizione di quest’anno tenutasi a Rotterdam.

Rassegna di canzoni piuttosto mediocri, con coreografie tra il barocco ed il pacchiano (raffigurate bene nel divertente film sui Fire Saga con William Ferrell, su Netflix), l’Esc, a differenza di quanto avviene da noi,  è appuntamento molto seguito nei paesi  che vi partecipano, non solo per motivi musicali.

È anche un’istituzione internazionale a tutto tondo, strumento non occasionale di politica estera, osservatorio privilegiato e fonte credibile di informazioni per analisti.

Fin dalla sua nascita negli anni ‘50, in piena Guerra Fredda, venne creata con obiettivi di proselitismo dei valori di libertà e svago Occidentali contrapposti al grigiore dei paesi del Patto di Varsavia.

Con il tempo tuttavia, più che essere momento di sintesi di un sentire comune europeo, è diventata piattaforma primaria di riaffermazione di singole identità nazionali dei paesi partecipanti, quasi nazionalista nel caso di quelli non comunitari.

La tendenza è andata accentuandosi con l’ingresso nella competizione di numerosi Paesi ex-comunisti dell’Est Europa, le cui reti diplomatiche in via di formazione hanno spesso influenzato e politicizzato la loro partecipazione al festival. Oltre a rendere più imprevedibile l’esito finale della gara (le nazioni presenti nella edizione del 1990 erano 22; quest’anno erano quasi il doppio – 39).

Altro aspetto poco legato alla musica è che – nonostante il regolamento del festival vieti riferimenti politici espliciti – l’Esc è diventato occasione ricorrente per rivendicare posizioni sulle principali istanze internazionali del momento.

In un bel saggio recente di due ricercatori turchi (Umut Bekcan, Pınar Uz Hançarlı) vengono elencati una lunga serie di esempi succedutisi negli anni fino al recente caso nel 2019 dove il gruppo musicale islandese si è esibito a Tel Aviv indossando sciarpe palestinesi.

Le votazioni espresse dai singoli paesi sulle canzoni degli altri si sono caricate di crescenti significati geo-politici e sono diventate specchio dell’andamento di scontri e alleanze internazionali, portando a veri e propri incidenti diplomatici.

La vittoria all’Esc non riguarda solo chi canta ma coinvolge tutto il paese, è motivo di orgoglio nazionale, pari se non superiore a quella dell’imporsi in una importante competizione sportiva europea.

Molto poco di questo si è percepito in Italia con i Maneskin, accolti in patria dopo Rotterdam con meno entusiasmo di quello registrato in occasione dell’affermazione a Sanremo.

Al netto del fatto che il gruppo romano ha il raro merito di piacere a cerchi concentrici di generazioni molto diverse e trasmette l’essere prodotto non di marketing a tavolino ma di vera maturazione creativa, ha un senso cercare di leggerne il successo da altre angolazioni.

Zitti e Buoni si discosta nella musica e nei testi dalla tradizione melodico-romantica non solo italiana ma anche della media delle banali e prevedibili canzoni che in genere si ascoltano all’ESC.

Il fatto che abbia stravinto il voto popolare dimostra quanto sia trasversale nelle pubbliche opinioni europee il sentimento di frustrazione prima e di reazione poi alle restrizioni alla libertà personale subite durante la pandemia.

Da sempre, il rock è sintomo di protesta spontanea e sincera, dal basso, ribelle: più vicina al modello rappresentato da Jimmy Hendrix che da Greta Thunberg.

Inoltre, poiché all’Esc i Paesi “antipatici” vengono sempre puniti (a Rotterdam il gruppo britannico del dopo Brexit è riuscito nell’impresa di restare a zero voti) la vittoria dei Maneskin è un’affermazione anche dell’Italia e certifica quanto abbiamo ricordato spesso su queste pagine.

Ovvero, che per quanto il nostro paese abbia visto erodersi negli anni il suo ruolo internazionale (almeno fino al recente arrivo di Mario Draghi), continua a beneficiare di un forte credito e immagine positiva grazie al suo primato in campo diplomatico culturale e commerciale.

Infine, non va dimenticato che l’Italia, in qualità vincitore a Rotterdam, ospiterà l’edizione 2022 dell’Esc, tra i pochi eventi rimasti a combinare insieme la visibilità di un evento sportivo e le opportunità di un summit internazionale.

Non deve sorprendere che nell’attuale Dis-ordine mondiale, con capi di Governo a difesa dei propri campionati di calcio e guerre commerciali giocate sul protezionismo turistico, anche una vittoria canora europea sia agli occhi internazionali un importante segno di ripartenza del nostro Paese. A ritmo di rock.

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