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Davvero il reddito di cittadinanza allontana i giovani dal lavoro? Tutti i numeri

Secondo il recente sondaggio “Giovani e futuro” di Proger Index Research poco più del 31% dei ragazzi tra 25 e 35 anni non accetterebbe un lavoro con retribuzione uguale o inferiore al reddito di cittadinanza. Antonio Mastrapasqua legge con dati alla mano la situazione del lavoro in Italia

Ha ragione Tommaso Nannicini quando sostiene che “se le imprese fanno fatica a trovare personale, servono strumenti di selezione, salari dignitosi, niente tirocini gratuiti, investimenti in formazione. Emancipazione, non sfruttamento”. Senatore del Pd, presidente della commissione sugli Enti previdenziali, nel governo Renzi era l’ascoltato consigliere delle politiche del lavoro. Tutte le semplificazioni sono pericolose, anche se talvolta diventano utili. Sostenere che i giovani rifiutino il lavoro perché “viziati” dal reddito di cittadinanza può essere una forzatura, come afferma Francesco Nicodemo in un bell’articolo su Formiche.net. Ma qualche dubbio è lecito avanzarlo, senza generalizzare; ma senza cancellare i dati della realtà.

Il primo dubbio lo insinua un recentissimo sondaggio di Proger Index Research, “Giovani e futuro”. Poco più del 31% dei giovani tra 25 e 35 anni non accetterebbe un lavoro con retribuzione uguale o inferiore al reddito di cittadinanza. Il 38,4%, con un soprassalto di realismo, dichiara che lo accetterebbe “ma solo per fare curriculum”. Per portare il dato ai temi di giornata, quindi nemmeno questo 38,4% farebbe un lavoro non coerente con le proprie aspettative: quindi niente stagionali nel turismo se l’obiettivo è diventare avvocato o ingegnere.

Vuol dire che tre quarti dei giovani preferisce tenersi il reddito di cittadinanza piuttosto che dire sì a un lavoro che non aggiunga subito denaro e coerenza formativa. Consapevoli che oltre al reddito di cittadinanza c’è l’aiutino familiare: il 57,7% degli intervistati ammette di contare sull’integrazione di reddito garantita dalla famiglia di origine (sempre, qualche volta o raramente). Nulla emerge sulla propensione all’integrazione con il lavoro nero, che forse riguarda più i percettori di reddito di cittadinanza con qualche anno in più.

Ma questa è un’altra distorsione innegabile della misura ogni tanto criticata, ma sostanzialmente mantenuta nelle scelte del governo. Natale Forlani, con un passato di sindacalista di prima linea, lo dice senza mezzi termini: “Distribuire i sussidi in fretta e furia sulla base delle dichiarazioni Isee sul reddito e sul patrimonio autocertificate dagli interessati, in un Paese dove oltre il 40% dei contribuenti non paga un euro all’erario, non depone bene. A chiarire questi dubbi, dato l’ampio utilizzo che dell’Isee viene fatto da parte delle amministrazioni pubbliche per erogare benefici in favore dei ceti meno abbienti, potevano bastare gli esiti delle indagini campione operate dalla Guardia di finanza, secondo la quale il 70% di queste dichiarazioni non risultava attendibile”.

Sono convinto che ci siano giovani motivati e anche ferocemente “meritocratici”, così come sono sicuro che ve ne siano coerenti con la definizione di bamboccioni. Nel sondaggio di Proger Index Research una domanda conferma questa divaricazione. Se il 45,6% dei giovani intervistati dichiara di essere ben disposto ad accettare un lavoro all’estero, poco meno del 48% mette avanti le mani con dei distinguo: il 18,6% dice un “no” secco; il 16,4% accetterebbe l’estero ma solo nei confini Ue; il 12,9% ne fa subito un problema di denaro: va bene lasciare l’Italia solo se si tratta di lavori ben retribuiti. Aspirazione legittima, ma in certi casi intempestiva nell’orizzonte di crescita personale e professionale.

Non sarà tutta colpa del reddito di cittadinanza, ma gli effetti che ha prodotto sono per lo più distorsioni, deludenti sotto il profilo del contenimento della povertà, e senza dubbio contrarie a un’evoluzione positiva del mercato del lavoro, giovanile e non solo. Cito ancora Forlani: “Deve essere però chiaro che queste distorsioni non sono il frutto di incidenti di percorso, ma della deliberata volontà di utilizzare il pretesto della povertà per erogare sussidi al reddito a capocchia e per fini clientelari. Le penalizzazioni – delle famiglie numerose, delle aree del nord e degli immigrati – sono puntualmente declinate nelle modalità stabilite per accedere ai benefici e per definire gli importi di spettanza. Frutto della deliberata volontà di trasformare lo strumento del reddito di cittadinanza in una sorta di reddito di base per le singole persone disoccupate, come propagandato in campagna elettorale dagli esponenti del M5S, e che viene riproposto dall’attuale ministro del Lavoro quando teorizza di utilizzare il reddito di cittadinanza per i disoccupati in uscita dai sostegni al reddito ordinari”.

Una misura destinata a fare debito, molto debito in più. Sarebbe interessante sapere se venga percepito come “debito buono”. La saggia distinzione rammentata dal presidente Mario Draghi dovrebbe essere sottoposta a verifica: il debito generato dal reddito di cittadinanza è destinato a stimolare la crescita economica (sarebbe così, se fosse “buono”), o sta finendo per generare sprechi e disincentivi per le attività economiche? Non possiamo aspettare l’ardua sentenza dei posteri; ce ne occorre una nel presente.

 

 

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