Hamas con la sua inutile guerra degli 11 giorni ha favorito la soluzione politica per la formazione di un governo solido in Israele, dopo che ben quattro turni elettorali anticipati non erano risultati sufficienti a mettere il primo ministro Benjamin Netanyahu in condizioni di avere la maggioranza dei seggi nella Knesset. Ma non solo. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
Uno dei risultati più negativi conseguiti da Hamas con la sua inutile “guerra degli 11 giorni” è stato sicuramente quello di favorire la soluzione politica per la formazione di un governo solido in Israele, dopo che ben quattro turni elettorali anticipati non erano risultati sufficienti a mettere il primo ministro Benjamin Netanyahu in condizioni di avere la maggioranza dei seggi nella Knesset, il parlamento di Gerusalemme.
Quando il 21 maggio scorso, grazie alla mediazione diretta del presidente egiziano Al Sisi, sono cessati i lanci di missili da Gaza verso le città di Israele e i bombardamenti di rappresaglia da parte ebraica, gli estremisti palestinesi di Hamas, che governa la Striscia da 14 anni, e i loro sodali della Jihad Islamica Palestinese non solo non hanno raggiunto alcuno dei presumibili obiettivi delle operazioni belliche avviate senza preavviso il 10 maggio con una salva di razzi lanciati sulle principali città israeliane con l’evidente intenzione di provocare stragi di civili, ma si sono di fatto trovati isolati in un mondo arabo che, a parte una solidarietà di facciata manifestata piuttosto debolmente, non si è mobilitato per minacciare, per l’ennesima volta da un secolo a questa parte, un intervento diretto per “distruggere l’entità sionista”.
Appena terminata la crisi dei missili, in Israele si sono riavviate le consultazioni tra le forze politiche per arrivare alla formazione di un governo che dovrebbe portare alla fine dei 12 anni dell’era Netanyahu, con la formazione di una compagine di “grande coalizione” capeggiata dal leader del partito Yamina (“la Destra”), Naftali Bennett, e dal capo del centrista Yesid Atid, Yair Lapid, della quale faranno parte rappresentanti di ben sette partiti, compresi esponenti del partito arabo-islamico Raam.
Gli altri politici di punta del nuovo governo di Gerusalemme saranno Benny Gantz della coalizione Blu e Bianco e Avigdor Lieberman, il coriaceo ex ministro degli Esteri, segretario del partito Israel Beytenu.
Con un governo dotato di un’ampia maggioranza parlamentare, Israele dovrà affrontare i dossier lasciati aperti al termine di un breve conflitto, quello del 10-21 maggio che, se ha visto fallire gli obiettivi militari dell’estremismo palestinese, richiede comunque la soluzione di problemi politici di forte spessore geopolitico.
Il fronte arabo, un tempo unanimemente anti-israeliano, con gli “accordi di Abramo” dell’agosto del 2020 che hanno portato, sotto l’egida dell’allora presidente americano Donald Trump e con la “non opposizione” pragmatica dell’Arabia Saudita, alla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi, Bahrein e Sudan, si è ulteriormente frammentato, lasciando il Qatar, tradizionale sponsor dell’estremismo jihadista islamico e delle frange più radicali della resistenza palestinese, totalmente isolato ed emarginato.
La posizione più enigmatica, al momento, resta quella della Turchia di Erdogan. Il presidente turco, forse, ha compreso di essersi fatti, negli ultimi anni, troppi nemici sulla scena internazionale e il suo sogno di trasformare la Turchia in una potenza egemone a livello regionale si è infranto dopo le sconfitte subite dai Fratelli Musulmani in tutti gli stati arabi, dopo il fallimento delle finte “primavere” e della sanguinosa rivolta anti Assad che ha avuto, in definitiva, come unico vero risultato quello di rafforzare la presenza russa nella regione e nello scacchiere mediterraneo.
Ankara, nonostante l’invio nel Mediterraneo orientale di una consistente forza navale, ha anche perso l’occasione per partecipare, in un clima di collaborazione, alla ricerca delle riserve marine di gas naturale nello spazio di mare tra Egitto e Cipro, che vede impegnati insieme a questi due ultimi paesi, Israele e Grecia che insieme a Cipro hanno costituito un’alleanza economica triangolare che, cooptando anche l’Egitto di Al Sisi, potrebbe contribuire all’ulteriore isolamento della Turchia.
Forse proprio per questi motivi, Ankara non solo non è andata oltre a una solidarietà di facciata nei confronti dei palestinesi durante la “guerra degli undici giorni”, ma ha addirittura lasciato intendere che vorrebbe migliorare i rapporti diplomatici con Gerusalemme, visto che, nonostante la propaganda e le minacce verbali, Erdogan continua a mantenere ottime e prospere relazioni commerciali con Israele (l’interscambio bilaterale tra i due paesi durante la crisi è addirittura aumentato).
D’altronde solo pochi mesi fa, nel dicembre dello scorso anno, il presidente turco si era lasciato andare a una sorprendente dichiarazione pubblica quando ha ammesso che “le nostre relazioni con Israele nel campo dell’intelligence non sono comunque cessate e continuano tuttora… Abbiamo difficoltà con alcune persone al vertice (e, cioè, con Netaniahu, n.d.t.)”.
Questo atteggiamento ambivalente della Turchia nei confronti di Israele è analogo a quello manifestato nei riguardi dell’amministrazione Biden. Nonostante le proteste verbali di Erdogan per il riconoscimento ufficiale del genocidio armeno da parte del nuovo presidente americano, Ankara vuole, con la nomina di un nuovo ambasciatore filo occidentale negli Stati Uniti, raffreddare le tensioni con Washington, anche attraverso un atteggiamento di moderazione nei confronti di Israele. A parere dell’analista israeliano Ely Karmon, la futura politica di Gerusalemme nei confronti della Turchia di Erdogan dovrebbe essere quella della “fiducia, con verifica”.
Il dossier più scottante che il nuovo governo di Gerusalemme si troverà sul tavolo resta comunque quello iraniano.
La minaccia posta alla sopravvivenza stessa di Israele dal programma nucleare di Teheran non è sottovalutata da nessuna delle forze politiche. Le speranze di un rallentamento nella ricerca atomica da parte dell’Iran dopo la firma, nel 2015, del Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo siglato dagli iraniani con Cina, Francia, Usa, Germania e Russia, che prevedeva limiti sostanziali all’arricchimento dell’uranio nelle centrali iraniane, sono svanite di fronte alla reticenza di Teheran in tema di controlli diretti sui suoi sviluppi, e dopo la decisione di Donald Trump di denunciarne l’inefficacia.
Per questo Israele ha proseguito nella sua politica di sabotaggio cibernetico degli impianti iraniani e di “eliminazione selettiva” degli scienziati impegnati nel programma (ultima vittima, il capo del programma nucleare iraniano Moshem Fakhrizadeh, ucciso alle porte di Teheran il 27 novembre 2020). Sul tema si sono espressi chiaramente due esponenti di primo piano dell’intelligence israeliana, Ephraim Halevy ex capo del Mossad e il generale in pensione Aharon Zeevi Farkash, già capo di Aman, l’intelligence militare, che in un articolo pubblicato su Haaretz il 22 aprile 2021 hanno tracciato le linee guida di quella che dovrebbe essere la strategia israeliana nei confronti dal problema nucleare iraniano: da un lato, occorrerebbe continuare con la “pressione” dell’intelligence nei confronti del programma, tenendo conto del fatto che occorreranno comunque due anni per fabbricare un’arma nucleare, una volta raggiunti i livelli accettabili di arricchimento dell’uranio (mossa, questa, che Teheran non ha ancora fatto); dall’altro lato bisognerebbe riattivare il Jcpoa, con un nuovo coinvolgimento statunitense e con il supporto derivante dalle nuove, positive, relazioni di Israele con molti paesi arabi, per esercitare pressioni politiche e diplomatiche su Teheran anche alla luce delle recenti, discrete, mosse diplomatiche dell’Arabia Saudita nei confronti dell’Iran e della Siria di Assad per arrivare a un miglioramento delle reciproche relazioni e a un’attenuazione delle tensioni nell’area del Golfo, a cominciare dalla guerra civile nello Yemen dove l’Iran sostiene i ribelli Houti.
La diplomazia, quindi, è in movimento e per ottenere risultati positivi nell’attenuazione delle tensioni regionali deve tener conto di due altri importanti player strategici: La Russia e la Cina. La Russia è ormai stabilmente presente in Siria, dove è intervenuta nel 2015 per salvare il regime di Assad dalla sconfitta ad opera dello Stato Islamico e dove giocherà un ruolo di primo piano nella ricostruzione del Paese distrutto al 75% dopo un decennio di guerra civile, dopo essersi peraltro solidamente stabilita militarmente nel porto di Tartus e nella base aerea di Khemeimim, nel nord del Paese. Vladimir Putin è stato il primo presidente russo a visitare Israele nel 2005.
Da allora ha trattato le relazioni con Gerusalemme conferendole un “status speciale” e, nonostante alcune divergenze di facciata, ha impresso alle relazioni bilaterali russo-israeliane –grazie anche all’opera professionale del suo ministro degli Esteri, Sergey Lavrov- una svolta positiva che rende Mosca interlocutore credibile su tutti i tavoli del Medo Oriente. L’altro interlocutore che nella regione sta diventando ogni giorno più influente è la Cina del presidente Xi Jinping.
Fin dagli anni ’90 Pechino e Gerusalemme hanno stabilito forti legami economici bilaterali, specie nel campo dell’industria della difesa, suscitando le preoccupazioni malcelate degli Stati Uniti. Queste relazioni sono cresciute parallelamente a numerose intese politiche ed economiche tra la Cina e gli Stati del Golfo e questo ha consentito a Pechino di giocare un ruolo sempre crescente in tutta la regione.
La tregua tra Hamas e Israele è stata siglata grazie alla mediazione del presidente egiziano Al Sisi, ma anche grazie al lavoro sotterraneo svolto dalla diplomazia cinese nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il conflitto israelo- palestinese, all’interno di uno scenario che resta complesso ma che vede la maggioranza degli attori politici impegnata a ricercare nuovi modelli di cooperazione e di coesistenza pacifica, è diventato di fatto marginale, dopo essere stato per settant’anni il centro di gravità delle dinamiche mediorientali e questo contribuisce forse a spiegare la mossa disperata di Hamas che, il 10 maggio, ha tentato di far saltare il tavolo lanciando salve di missili contro le città israeliane senza che questo abbia influito in modo significativo negli equilibri regionali.
Ed è questa la realtà che si troverà ad affrontare il nuovo governo israeliano, una realtà inimmaginabile solo pochi anni fa e che induce a dire, parafrasando Churchill, che per quanto riguarda il conflitto in Palestina “non siamo all’inizio della fine ma-forse-siamo alla fine dell’inizio”.