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Libia, fuori i mercenari. L’appello di Draghi a Russia e Turchia

Draghi pressa sulla Libia. Fuori i combattenti stranieri, compito che le organizzazioni internazionali devono tenere in primo piano nell’agenda di sicurezza e stabilizzazione regionale

“La prima esigenza che ha la Libia è quella di attuare il cessate il fuoco. Questo significa che i militari, i combattenti, i mercenari di altri Paesi devono andare via: i siriani, i russi, i turchi”, ha detto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, parlando ai giornalisti a Carbis Bay, Cornovaglia, dov’erano riuniti i leader del G7. L’affermazione è importante e tutt’altro che casuale: arriva infatti a margine dell’incontro con il presidente americano, davanti a inglesi, francesi, tedeschi — tutti interessati alle dinamiche libiche e mediterranee — e alla vigilia del vertice Nato.

Incontro in cui la Russia come rivale e la Turchia come alleato complicato saranno al centro della scena. Entrambi i Paesi hanno proiettato i loro interessi sul suolo libico. Ankara è intervenuta militarmente a sostengo del precedente governo onusiano (il Gna guidato da Fayez al Serraj) difendendolo dall’assalto dei ribelli dell’Est che hanno mosso su Tripoli sotto il comando del capo miliziano Khalifa Haftar — assistito militarmente in vario modo da Russia, Emirati Arabi ed Egitto.

Lo scontro, iniziato ad aprile 2019, si è concluso la scorsa estate con la sconfitta haftariana, e il cessate il fuoco che ha aperto la strada all’attuale Governo di unità nazionale, ma ha lasciato sul campo i suoi strascichi. La Turchia ha mobilitato pochi reparti scelti (corpi speciali e personale addette all’uso dei droni che hanno sfondato le linee ribelli in Tripolitania) secondo un accordo di cooperazione stretto con Serraj. Ma soprattutto ha spostato qualche migliaia di combattenti siriani appartenenti a fazioni islamiste (come la Sultan Murad) che hanno combattuto il regime assadista e a cui Ankara ha offerto protezione strutturandole come unità a cui affidare il lavoro sporco.

Stesso compito che i russi hanno affidato al Wagner Group, i contractor schierati a fare da istruttori militari agli hafatariani, ma anche disposti (soprattutto tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020) al fronte tripolino — cecchini altamente professionali, molti ex Spetsnaz, ben equipaggiati, che per qualche periodo hanno permesso ai ribelli di ottenere vantaggi in una guerra che partiva già con poche speranze per l’Est. Inoltre a rinfoltire le linee di combattimento di Haftar sono stati portati in Libia mercenari ciadiani e sudanesi. Secondo alcune ricostruzioni sono agati dagli emiratini (che negano questo genere di coinvolgimento, come i russi). Non hanno cambiato le sorti del conflitto come ha fatto l’intervento turco, ma gettato un ulteriore livello di complessità nel dossier.

I ciadiani per esempio hanno preso parte all’attacco in cui è rimasto ucciso il presidente Idriss Déby. La questione rappresenta il rischio di sovrapposizione tra quanto accade in Libia con le tensioni regionali. Ragione per cui l’impegno per tirare fuori dal Paese quei combattenti è un priorità assoluta, come ricordato al G7 da Draghi, a due settimane dalla conferenza Berlino-2 — replica di quella in cui teoricamente tutto questo si era già deciso (poi confermato durante il Cesare il fuoco che aveva anche dettato una data: il 23 gennaio sarebbero dovuti uscire tutti i combattenti stranieri). Sia l’Onu che la Nato hanno fatto pressioni sul tema. Lo stesso ha fatto l’Ue, che con l’operazione “Irini” ha il compito di controllare il rispetto dell’embargo onusiano sulle armi (che ovviamente riguarda anche i combattenti stranieri che arrivano sul suolo libico).

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