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I robot non sono nemici del lavoro ma… L’analisi di Zecchini

Contrariamente a una diffusa opinione, l’automazione non deprime l’occupazione, ma determina una ridistribuzione delle opportunità di lavoro tra competenze, settori e territori. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

Nell’attuale fase di uscita dalla pandemia uno dei punti del contendere dentro e fuori il governo è lo sblocco dei licenziamenti. Nell’Ue solo l’Italia ha adottato il blocco basandosi sull’assunto che col collasso delle attività produttive le imprese non avrebbero avuto motivo di trattenere forza lavoro che è speditamente rimpiazzabile al momento della ripresa economica. Si tratta di forze che possono essere sostituite o con altre a bassa specializzazione e disponibili in gran numero, o ricorrendo a investimenti nelle nuove tecnologie di Industria 4.0, tra cui i robot.

Questi ultimi, coniugati con tecniche di intelligenza artificiale, IoT, 5G e altre, hanno spinto molto in avanti la frontiera dei compiti che sono in grado di assolvere al posto dell’uomo. Ne possono discendere sostanziali incrementi di produttività e cambiamenti nella domanda di lavoro delle imprese nel duplice senso di una minore richiesta di lavoro e di una maggiore qualificazione nelle competenze richieste. Ogni cambiamento radicale di tecnologie provoca sconvolgimenti nel mondo del lavoro, come si è visto fin dalla prima rivoluzione industriale del tardo millesettecento.

Questa volta assumono toni più allarmanti per i lavoratori sia per l’ampiezza delle prestazioni sostituibili con la nuova automazione, sia per il continuo avanzamento tecnologico e per la rapidità di diffusione. Si pensi alla generalizzazione dell’uso del web in poco più di un quinquennio. Nel prefigurare scenari inquietanti per l’occupazione nel prossimo decennio, si è da tempo avviato un dibattito sul modo di fronteggiare lo shock dell’automazione con proposte molte varie. Si va dall’imposizione di nuovi tributi o disincentivi per l’impiego di tecnologie sostitutive del lavoro, all’introduzione di un reddito minimo universale e al rallentare la realizzazione delle infrastrutture abilitanti delle nuove tecnologie.

Si è voluto altresì analizzare l’esperienza degli ultimi decenni per approfondire la conoscenza degli effetti sul lavoro dell’automazione di diverse attività per trarne indicazioni per le politiche da seguire. La mole di studi è divenuta notevole in pochi anni, ma da ultimo si è arricchita di analisi sempre più dettagliate, passando dall’esame per l’insieme dell’economia di un Paese a singoli settori e al tipo di prestazione lavorativa più o meno a rischio. Non è sufficiente vedere quale categoria di prestazioni un robot può eseguire in autonomia per trarne la conclusione sul grado di spiazzamento del lavoro umano, in quanto sono molteplici gli attributi di una stessa prestazione che rendono l’intervento umano più o meno sostituibile.

A livello di un’intera economia si è visto che la diffusione dell’automazione tende a polarizzare la domanda di lavoro delle imprese verso i due estremi: le competenze relativamente alte e quelle basse, a svantaggio di quelle intermedie (mid-skills). Sarebbe la categoria degli impiegati ad essere più esposta ma l’effetto di spiazzamento può derivare anche da fattori esterni all’automazione, come l’outsourcing di determinate prestazioni verso Paesi a basso costo del lavoro. Tra i Paesi, negli Usa si stima che il 47% dei posti di lavoro sia a rischio, che un robot possa rimpiazzare sei lavoratori, e che l’industria dell’automobile e la meccanica siano le più esposte, seguite da quelle dell’energia, dei metalli e dell’elettronica.

In contropartita, l’automazione sembra incrementare la produttività, ridurre i prezzi con effetti positivi sulla domanda e generare nuove opportunità di lavoro in funzioni complementari ai robot o in altri settori. Complessivamente si stima che l’effetto netto in America sia lo spiazzamento del lavoro, risultato che, invece, non trova conferma nelle analisi per la Germania e l’Italia.

I risultati delle analisi non sono univoci né tra Paesi, né per uno stesso, variano tra gli autori per le metodologie impiegate e si differenziano tra settori e per gruppi di imprese. Si basano, inoltre, su dati che si riferiscono a periodi di durata diversa, con alcuni che abbracciano più di due decenni e altri solo l’ultimo. Naturalmente, l’analisi del passato non appare indicativa degli effetti da attendersi nel prossimo futuro, perché il recente passaggio alla Quarta rivoluzione industriale, che la crisi sanitaria ha accelerato, e il recente avanzamento nella robotizzazione comportano con ogni probabilità estese modifiche nell’organizzazione e nella struttura delle imprese, con riflessi sul lavoro. Si tratta di un cambiamento di sistema che i dati del passato non possono cogliere pienamente.

Per l’Italia, ad ogni modo, tre recenti studi meritano attenzione per le implicazioni di policy che ne scaturiscono. Un’analisi della Banca d’Italia del luglio 2020, per opera di D. Dottori, stima che nell’aggregato dell’economia la diffusione dal 1993 dell’impiego dei robot non abbia inciso negativamente né sulla crescita dell’occupazione, né sul tasso di occupazione della popolazione. Scendendo a livello di settori, tuttavia, l’analisi econometrica evidenzia un modesto effetto negativo nel manifatturiero, quando si analizza l’andamento dei rapporti di lavoro nelle imprese e si azzera l’influenza di diversi altri fattori che possono incidere sul risultato.

L’effetto è differenziato a seconda dell’esperienza maturata in azienda. Nei comparti più esposti al rischio dell’automazione i lavoratori che hanno accumulato esperienza mantengono a lungo le loro opportunità di lavoro, quasi a indicare la loro complementarità con l’impiego dei robot. In contrasto, per quelli che sono passati ad altri settori l’automazione ha un effetto di spiazzamento, benché limitato. L’effetto più significativo si osserva nell’assunzione di nuove leve, perché risulta sistematicamente più contenuta nei comparti più esposti all’automazione che negli altri. In altri termini, si modifica la distribuzione delle nuove opportunità di lavoro tra settori più o meno esposti al rischio automazione.

Un altro studio, condotto da M. Caselli con altri autori, conferma i risultati della precedente analisi per un arco di tempo più recente (2011-2018) e la arricchisce con un esame disaggregato, che guarda ai compiti delle prestazioni lavorative svolte in azienda e alle applicazioni dei robot, insieme alla dimensione locale dell’esposizione all’automazione sulla base delle industrie presenti sul territorio e della loro struttura occupazionale. Dalla loro analisi non emerge un effetto depressivo della robotizzazione sull’andamento occupazionale in aggregato, ma all’interno di questo insieme si notano differenze significative tra tipologie di lavoro.

Quanti svolgono funzioni collegate all’impiego dei robot non subiscono ridimensionamenti. Addirittura, in alcuni comparti l’adozione di queste macchine si accompagna a un aumento dei lavoratori chiamati a svolgere funzioni cognitive rutinarie e quelle manuali non rutinarie. Di contro, si riduce la domanda per compiti che comportano un’elevata intensità di prestazioni manuali, come confermano le statistiche più recenti. Pertanto, con l’avanzamento dell’automazione si modifica la distribuzione delle opportunità di lavoro tra i diversi tipi di prestazioni.

Un’ulteriore conferma dei risultati dei precedenti lavori è fornita da ultimo da una ricerca di due economisti italiani dell’Oecd, che usano una metodologia differente. Sulla base dei brevetti depositati nell’ultimo decennio per invenzioni che possono rimpiazzare il lavoro identificano quali occupazioni sono più esposte al rischio di automazione e le confrontano con gli andamenti riscontrati nella realtà nello stesso periodo. Le occupazioni più esposte riguardano sia le mansioni a bassa competenza, sia alcune specialistiche di alto livello. Dal confronto con l’andamento effettivo non risulta un impatto significativo dell’automazione sulle quote occupazionali nei Paesi dell’Oecd. L’adozione di tecnologie sostitutive del lavoro non intacca i livelli occupazionali negli stessi comparti in cui si applicano. Questo risultato farebbe pensare all’esistenza di meccanismi compensativi delle perdite di lavoro indotte dalla stessa automazione. Questi meccanismi possono consistere in incrementi della domanda dovuti all’abbassamento dei prezzi o in un ampliamento della gamma di beni e servizi offerti.

Da queste analisi del passato si traggono due messaggi principali: contrariamente a una diffusa opinione, l’automazione non deprime l’occupazione, ma determina una ridistribuzione delle opportunità di lavoro tra competenze, settori e territori. Occorre, quindi, che si agevoli la transizione tra occupazioni meno richieste e quelle maggiormente ricercate dalle imprese, che nel caso dell’Italia comporta due esigenze specifiche. Da un lato, si richiede un mercato del lavoro meno rigido di quello attuale e dall’altro lato, è urgente sviluppare le nuove competenze (skills) domandate dall’economia. Queste sono anche le raccomandazioni che da anni Bruxelles continua a rivolgere al Paese con esiti deludenti.

Il prolungamento dei blocchi dei licenziamenti e la presenza di restrizioni alla mobilità dei lavoratori frena l’adattamento dell’economia alle nuove tecnologie e di riflesso la produttività e la capacità di generare ricchezza. Paradossalmente, i blocchi rafforzano la tendenza degli imprenditori ad automatizzare i processi produttivi sostituendo il lavoro con capitale tecnologico. La nuova ondata di incentivi disposti dal governo per stimolare gli investimenti innovativi e la ricerca si coniuga perfettamente con questa logica di sostituzione a svantaggio dell’occupabilità di parti delle forze lavoro.

Un limite a questo processo si incontra nella carenza delle competenze che accompagnano l’automazione e lo sviluppo produttivo. Ad esempio, l’ultima indagine dell’industria metalmeccanica indica che la maggioranza delle imprese (56%) non riesce a trovare le competenze professionali di cui necessita: il deficit tocca tanto quelle tecnologiche e digitali, quanto quelle tecniche di base, che sono le più richieste dalle imprese. Questo deficit è ancor più deprecabile nell’attuale fase di forte ripresa degli investimenti in macchinari ed attrezzature (3,5% nel primo trimestre dell’anno rispetto al precedente) in quanto finirà col favorire gli investimenti tradizionali piuttosto che quelli altamente innovativi della transizione 4.0.

La risposta del governo, enunciata nel Pnrr presentato all’Ue, consiste nel potenziare la formazione tecnica e l’istruzione nelle discipline Stem senza aggiungere particolari interventi per allentare le rigidità nel mercato del lavoro e per la riqualificazione professionale delle forze di lavoro con compiti obsoleti. È un approccio incompleto, che non mancherà di rallentare il necessario rinnovamento tecnologico del sistema produttivo.



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