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Lo smart-working è un diritto del lavoratore? Risponde Celotto

La pandemia ci ha dimostrato che siamo pronti a una diversa organizzazione del lavoro anche subordinato, con modalità che possono essere più efficienti e sicuramente più congeniali alla vita personale. Il commento di Alfonso Celotto

L’emergenza Covid ha di molto cambiato le nostre abitudini, anche anticipando di anni alcune pratiche del mondo digitale prossimo venturo. Uno degli esempi più vistosi è lo smart working. Prima del 2020 si chiamava “lavoro agile”. Era disciplinato dalla legge n. 81 del 2017 ed era utilizzato molto poco, con la normativa che lo incentivava soprattutto per le lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità e per i lavoratori con figli disabili che necessitino di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale.

Ma restava comunque un istituto di applicazione residuale. Sappiamo bene che, durante la pandemia, il lavoro a distanza è diventato la modalità quasi principale di erogazione di molte prestazioni lavorative sia nel pubblico sia nel privato. In molti ci siamo accorti che questo tipo di prestazione lavorativa sia diventato un modo per conciliare i tempi di vita e di lavoro: riducendo gli spostamenti, acquisendo una maggiore flessibilità nei tempi, potendo curare maggiormente interessi personali e funzionali, organizzandosi meglio.

Anche per i datori di lavoro può rappresentare una modalità per ottimizzare costi e funzioni. In questo momento il legislatore lascia ancora ampia flessibilità organizzativa ai datori di lavoro nell’organizzare il lavoro a distanza, ma ne riconosce il vero e proprio diritto soltanto ai lavoratori fragili e ai genitori che abbiano figli disabili, in quarantena o i Dad (da ultimo, D.L. 41/2021).

Tuttavia, sullo sfondo, si sta aprendo un dibattito di fondo: lo smart working è un diritto del lavoratore, che può chiederlo quando vuole, o resta comunque sempre nelle mani del datore di lavoro scegliere la modalità di prestazione più utile e efficiente? La nostra impostazione legislativa non lascia molto spazio ai dubbi, trovando cardine nell’art. 2094 del codice civile: “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Tuttavia la pandemia ci ha dimostrato che siamo pronti a una diversa organizzazione del lavoro anche subordinato, con modalità che possono essere più efficienti e sicuramente più congeniali alla vita personale. In fondo riconoscere il diritto individuale allo smart working potrebbe essere letto come una ulteriore proiezione della eguaglianza sostanziale sancita dall’art. 3, 2° comma, Cost. Consentire a tutti coloro che vogliano di lavorare a distanza potrebbe cioè essere, alla luce delle nuove tecnologie, una nuova modalità con cui consentire “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Si tratta, con evidenza, del confronto tra due filosofie di organizzazione del lavoro e prima ancora di vita. Ma penso che siamo arrivati al momento giusto per mettere in discussione i canoni tradizionali della prestazione lavorativa e le organizzazioni delle nostre vite, che per decenni abbiamo pensato sempre cadenzate sulle 8 ore da trascorrere in ufficio. La pandemia deve essere vista anche come una opportunità, un momento di crescita.

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