Intervista a Romano Prodi, già presidente del Consiglio e della Commissione europea, a margine del convegno “Strategic Nexus” di Formiche e ChinaMed. La Cina avanza nel Mediterraneo, ma l’Europa rimane inerte, divisa. Dalla Siria alla Libia, ormai è il Mare “Loro”. Diritti umani? Sono il fondamento dell’Ue, non possiamo transigere. E sul 5G…
Cooperare, dove si può. Competere, e prendere le distanze, dove si deve. Con la Cina di Xi Jinping bisogna fare i conti, piaccia o meno. Dall’estremo Oriente è arrivata in seno all’Europa. Porti, investimenti, acquisizioni di infrastrutture critiche, una tela diplomatica e strategica che costringe l’Ue, e l’Italia, a tracciare una rotta ben definita per cogliere le opportunità, senza tradire gli impegni e i valori condivisi con gli alleati della Nato, a partire dagli Stati Uniti. Si può fare, dice a Formiche.net Romano Prodi, già presidente del Consiglio e della Commissione europea, da sempre un fine conoscitore dell’ex Celeste Impero. A margine della conferenza “Strategic Nexus” di Formiche e ChinaMed, riflette sull’avanzata cinese nel Mediterraneo, dalla Siria alla Sicilia. Un mare che è sempre meno “nostro”, e sempre più campo di gioco di un risiko che vede l’Europa attrice non protagonista.
Presidente, è ancora il Mare Nostrum?
È il Mare Aliorum, il mare degli altri. Dalla Siria al Nord Africa, dalla Libia a Cipro, abbiamo lasciato spazio a potenze, come Russia e Turchia, che finora non avevano mai avuto una presenza strategica nel Mediterraneo a noi vicino e ora esercitano un’influenza esorbitante sulla regione.
Nel “Mediterraneo allargato”, l’area che spazia da Gibilterra al Mar Nero, la Russia ha da tempo una importante presenza militare.
Ma in quelle aree vi è sempre una storica presenza russa e turca. Oggi le forze militari e diplomatiche russe e turche arrivano in Libia, lambendo le coste dell’Unione europea. Che rimane ferma, inerte.
Con loro si fa strada la Cina. Porti e infrastrutture strategiche, estrazione di risorse energetiche, relazioni diplomatiche e commerciali con i Paesi dell’Africa nord-orientale.
La Cina ha ormai una presenza importante, pervasiva nel Mediterraneo. Concentrata sul mondo degli affari, ma in modo globale e sistemico. Già nel 2011, quando è scoppiata la rivoluzione contro Gheddafi, in Libia erano presenti tra i 35mila e i 36mila cinesi. Tecnici, operai, ingegneri. In quattro giorni sono stati tutti rimpatriati, via Atene o Alessandria d’Egitto. Un’immagine che dà l’idea del peso della Cina nelle infrastrutture e nelle opere pubbliche nordafricane. Cui si aggiunge una presenza economica che va dall’Egitto al porto del Pireo fino ai Balcani.
La Cina sta entrando nel Mediterraneo attraverso la nuova Via della Seta, il grande piano geostrategico su cui Xi Jinping ha scommesso la sua presidenza. È ancora sostenibile?
Ho guardato con grande interesse a questo progetto, che ripercorre la scia di antichi rapporti commerciali, politici e culturali fra Europa e Cina. Finora però esso ha fatto poco per congiungere l’Asia all’Europa e ha operato soprattutto nelle aree dell’Asia centrale. Credo che i Paesi europei quando hanno aderito alla Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib) avessero ben altre aspettative. Sarebbe quindi opportuno un ritorno alle origini, facendo della Via della Seta un grande piano di cooperazione internazionale in cui si prendono decisioni comuni o, comunque, si opera in sinergia. Avevo proposto, ad esempio, un progetto comune fra Cina ed Europa per la costruzione di ospedali o di altre strutture di carattere sociale in Etiopia o in altri paesi africani.
La Via della Seta di Xi ha attirato anche dure critiche. Gli Stati Uniti hanno messo in guardia i loro alleati dalla natura predatoria degli investimenti cinesi e dalla vendita di infrastrutture chiave, come è accaduto al Porto del Pireo.
Non trovo che il progetto del Pireo abbia portato danni alla Grecia e nemmeno che i cinesi si possano portare via le banchine del porto. Sono altri gli investimenti che pongono un problema politico. Penso all’autostrada del Montenegro. Il progetto ha gravemente indebitato il Paese, che ora bussa alla porta dell’Ue e chiede un intervento. Se invece si tratta di investimenti fondati su una sana base economica non ho nulla da ridire. Salvo un biasimo.
Quale?
L’Italia ha perso un’occasione. Negli anni passati abbiamo trascurato porti strategici come Gioia Tauro e Taranto, senza modernizzarli. Saremmo stati noi i naturali terminali dei traffici fra Europa e Cina. È interesse italiano offrire un’alternativa ai porti nordeuropei, accorciando di quattro, cinque giorni di navigazione i traffici marittimi con la Cina. Non vedo certo un problema politico rilevante se le merci cinesi che arrivano in Europa sbarcano nel Mediterraneo e non a Rotterdam.
Gli Stati Uniti hanno reagito duramente alla firma italiana e considerano quell’accordo con la Cina un pericolo per la sicurezza della Nato.
Ripeto: non capisco come il progetto di far sbarcare le merci cinesi (o imbarcare le merci dirette in Cina) a Taranto e Trieste invece che a Rotterdam sia un attentato alla Nato. Si sta strumentalizzando tutto. Dobbiamo distinguere gli obblighi e i doveri dell’Alleanza atlantica, fondamentale per noi è per la nostra sicurezza, dalle convenienze commerciali che gli americani tengono giustamente presenti anche nei rapporti del loro paese con l’Impero di Mezzo. Non sono assolutamente contrario agli scambi commerciali fra Cina ed Europa. Sono invece da sempre critico nei confronti della creazione di una vera e propria istituzione voluta da Pechino, il formato 17+1 con i Paesi dell’Europa orientale.
Perché?
Una vera e propria struttura istituzionale che ha come conseguenza un tentativo di divisione dell’Unione europea. Ho guardato invece con interesse alla firma dell’accordo sugli investimenti con l’Ue (Cai) perché, anche se in termini non ancora definiti, prevedeva la messa in discussione di molti dei problemi che ostacolano i rapporti fra la Cina e l’Occidente, come gli aiuti di Stato alle imprese, la gestione della proprietà intellettuale e così via.
Ma quell’accordo ora è stato congelato dal Parlamento europeo.
Siamo arrivati a un livello di tensione tale per cui mi sembra difficile fare progredire il progetto di accordo. Abbiamo assistito a una specie di “escalation” che è arrivata fino a sanzionare alcuni membri delle stesse istituzioni europee. Non è mai saggio colpire le istituzioni! Debbo tuttavia ammettere che, almeno nella mia esperienza, le sanzioni non sono quasi mai state una soluzione. Adesso è difficile immaginare una ratifica dal Parlamento UE all’accordo sugli investimenti e quindi siamo di fronte a un probabile lungo periodo di congelamento dei rapporti.
Quindi si è definitivamente arenato?
Credo che sarebbe necessario ritornare sulla linea stabilita all’inizio da Angela Merkel, che prevedeva, almeno in linea di principio un confronto su temi particolarmente delicati, come gli investimenti reciproci, i brevetti, la proprietà intellettuale, gli aiuti di Stato. Ma per ora ben poco si può fare.
C’è un ostacolo: i diritti umani. Hong Kong, Xinjiang, Tibet. Le violazioni in Cina possono davvero restare fuori dagli affari?
L’Unione europea si fonda sui diritti umani: dobbiamo difenderli ed esserne orgogliosi. Purtroppo su questi temi non è stato avviato nessun dialogo costruttivo negli ultimi cinquant’anni, ma non credo proprio che i progressi arriveranno in conseguenza di un aumento delle tensioni. Ogni strategia va inoltre soppesata valutandone le conseguenze e gli effetti collaterali. In troppi casi abbiamo dovuto constatare che le sanzioni hanno giovato agli oppressori e danneggiato gli oppressi . Serve inoltre un po’ di coerenza su come e dove si applicano le sanzioni. La democrazia è un bene prezioso ma, purtroppo, anche in Europa non tutti praticano i suoi valori in modo uniforme.
Gli Stati Uniti di Joe Biden sono tornati a un approccio multilaterale nei confronti della Cina. In quali campi vede una possibile cooperazione?
Finora l’unico settore in cui ho visto delle aperture è la tutela dell’ambiente. Mi auguro solo che quest’importante momento di convergenza non sia danneggiato dalle crescenti tensioni in tutti gli altri settori. Penso tuttavia che anche la guerra commerciale non si spingerà oltre certi limiti, dato che, anche in questo periodo di estreme tensioni, una quota molto alta delle esportazioni cinesi è prodotta da multinazionali americane localizzate in Cina.. Sul fronte tecnologico il discorso cambia, soprattutto per le tecnologie dual-use, che possono avere un’applicazione militare. In questi campi la chiusura è destinata ad aumentare. Nel settore delle telecomunicazioni, dello spazio e di molti raffinati prodotti elettronici è difficile, almeno per ora, immaginare una qualsiasi apertura.