La Nato è pronta a reagire militarmente se attaccata nello o dallo Spazio. La dichiarazione finale del vertice di Bruxelles fa esplicito riferimento ai sistemi spaziali, alla loro difesa e al loro potenziale d’attacco. Da oggi il Patto Atlantico creato per la Guerra fredda si estende fisicamente anche nello Spazio, luogo dove per definizione non ci sono confini. L’opinione dell’ingegnere Marcello Spagnulo, presidente del Marscenter
Nel 2019 i membri della Nato riuniti a Londra avevano incluso il dominio spaziale quale quinto elemento delle operazioni militari dopo terra, mare, aria e cyberspazio. In quell’occasione i ministri della Difesa avevano approvato una prima “Space Policy”, a conferma che la militarizzazione dello Spazio era un processo ormai irreversibile. Nel vertice di ieri a Bruxelles, i Paesi dell’Alleanza hanno approvato l’espansione della clausola di difesa collettiva anche per attività ostili su assetti spaziali di uno degli Stati membri, sia che vengano messe in atto dalla Terra o direttamente nello Spazio.
L’articolo 5 del trattato istitutivo afferma che un attacco su uno qualsiasi dei trenta alleati sarà considerato tale per tutti i Paesi. Finora si è applicato solo per i settori detti convenzionali, cioè terra, mare o aria, ma da oggi vale anche nello Spazio esoatmosferico. Con felpato linguaggio diplomatico il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg insiste sul fatto che “l’alleanza non vuole militarizzare lo spazio”, ma che si rende necessaria una “panoramica operativa” della situazione attuale dato che i conflitti sono e saranno combattuti anche su campi di battaglia non convenzionali, cioè Internet e Spazio. Ecco perché il tema della difesa e del contrattacco nell’orbita diventa prioritario: esiste il concreto pericolo che alcune nazioni possano posizionare armi nell’orbita terrestre per attaccare i satelliti. Non è detto che lo facciano, ma disporranno comunque di un’opzione tattica.
Quanto deciso all’ultimo vertice non è una sorpresa. Gli alleati europei degli Stati Uniti stanno seguendo le orme americane già da tempo creando i propri comandi spaziali militari. Nel dicembre 2018, il Pentagono aveva annunciato che lo U.S. Space Command (UsSpaceCom) avrebbe integrato la neo-costituita Space Force, e da quel momento quattro grandi Paesi europei hanno costituito entità similari a livello nazionale: il Commandement de l’Espace in Francia, l’Air and Space Operations Centre della Bundeswehr tedesca, lo Space Comand in UK e il Comando operazioni spaziali organismo interforze del nostro Stato maggiore della Difesa.
Il più recente, quello del Regno Unito, ha iniziato le operazioni lo scorso aprile. Non è da oggi quindi che questi nuovi comandi operativi nazionali stanno approfondendo i reciproci legami tra loro e con gli Stati Uniti. Anche in Europa c’è diffusa consapevolezza sulle attività spaziali ostili. Nel 2018, il satellite Athena-Fidus, gestito congiuntamente dai ministeri della Difesa di Parigi e di Roma, fu avvicinato dal satellite russo Luch-Olymp, al punto che la ministra Florence Parly accusò senza mezzi termini Mosca di aver attuato un atto di spionaggio.
Il cambio di concetto strategico della Nato però non si riflette solo sull’allargamento dei campi operativi di azione militare ma anche sull’ampliamento del campo politico. Anche se Stoltenberg evita accuratamente la parola “avversario” a proposito della Cina, l’ha però definita una “sfida sistemica”. Una nuance linguistica per un concetto ben chiaro. Oggi, solo quattro nazioni – Usa, Russia, Cina e India – hanno posto in essere azioni dimostrative di distruzione di satelliti in orbita, ma anche il Giappone sembra essere sul punto di testare un sistema missilistico da-asat(direct-ascent anti-satellite).
Per l’Europa si pone, e non da oggi, un dilemma strategico: i singoli Stati non possono tutelare efficacemente i propri assetti spaziali in modo indipendente e hanno quindi cercato la cooperazione internazionale. Il programma Ssa (Space situational awareness) cioè la capacità di identificare e localizzare oggetti in orbita rappresenta un assetto essenziale per le operazioni spaziali, però richiede una rete globale di radar e sensori, a Terra e nello Spazio, che nessun singolo Paese europeo possiede. Ecco perché l’integrazione nello UsSpaceCom dei comandi spaziali nazionali è importante, ma non basta. Il progetto Ssa è nato anni fa in ambito Esa, che per statuto non può fare attività a esplicito scopo militare e quindi ufficialmente si concentra sull’aspetto “Armageddon”, cioè sul monitoraggio di asteroidi in arrivo dallo spazio profondo, quando tutti sanno che la priorità è la sorveglianza in orbita Leo e Geo.
E quindi la Commissione europea istituisce una nuova agenzia spaziale della Ue (la Euspa) che in teoria può operare nel campo militare, ma che deve ancora trovare un modus-operandi vis-a-vis dell’Esa. E già qui ci sarà molto lavoro da fare. Ma c’è poi un altro aspetto di grande importanza strategica. Oggi è difficile per i Paesi europei mostrare un deterrente credibile contro potenziali attacchi russi o cinesi sui loro assetti spaziali. Ad eccezione della Francia che da anni studia sistemi di contrattacco spaziale, gli altri Paesi mancano del tutto di tali capacità, né le stanno progettando e quindi non possono fare altro che affidarsi alla clausola di mutua difesa dell’articolo 5 della Nato, che non è mai stata applicata nello Spazio, e che comunque in pratica farebbe affidamento solo agli assetti statunitensi.
In questa corsa alle guerre stellari, la Francia prova a dire la sua e dal 2018 il Commandement de l’Espace progetta insieme alla Direzione generale degli armamenti, dei micro e nano satelliti di pattugliamento in grado di rilevare e identificare potenziali minacce nello Spazio (come il satellite Luch-Olymp) e se necessario neutralizzarle. E l’Italia? Un suggerimento: nel 2019 alla ministeriale Esa il nostro Paese ha finanziato con 150 milioni di euro, su un totale di 190 milioni, il progetto Space Rider (per inciso la Francia ha investito tre milioni di euro e la Germania zero) un veicolo “lifting body” che impropriamente è chiamato navetta riusabile ma non dispone di ali né di superfici aerodinamiche per manovrare in atmosfera.
Lanciato a bordo di un vettore Vega, dovrebbe orbitare per un paio di mesi grazie al quarto stadio del lanciatore che fungerebbe da modulo di servizio. All’interno della sua stiva troverebbero posto sperimentazioni di farmaceutica, biomedicina, biologia e scienze fisiche. Al termine della missione dovrebbe rientrare a Terra appeso a un paracadute dopo essersi separato dal modulo di servizio. Non riscontrandosi nel mondo progetti similari, forse sarebbe invece interessante studiare, almeno a livello di concept, una più efficiente configurazione per un reale assetto operativo in orbita bassa che non abbia solo scopi di ricerca ma anche di monitoraggio o deterrenza. Abbiamo una ragionevole confidenza che ciò interesserebbe anche i nostri partner europei che alla Ministeriale Esa non hanno invece ritenuto di aderire al programma.