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Abbiamo troppi giuristi nella Pa o ci servono giuristi differenti? Scrive Atelli

Il “nuovo giurista” di cui ha bisogno la Pubblica amministrazione deve, senza smarrire la sua identità, saper cogliere il senso “altro” delle cose. Quello economico, quello tecnico, quello sociale, quello non strettamente giuridico. Non deve ibridarsi troppo, smettendo di essere un giurista, ma al contempo deve saper individuare e cogliere il punto di sintesi con le altre prospettive. L’intervento di Massimiliano Atelli, magistrato, presidente della Commissione Via Vas

Da più parti (esperti di scienza dell’amministrazione, esponenti della politica, commentatori) si è levata negli ultimi tempi la doglianza che nella Pa vi sarebbero troppi giuristi e troppo poche professionalità di carattere tecnico. Il punto è – sullo sfondo – ripreso e sviluppato anche nel Dl sul lavoro pubblico e il rafforzamento della Pa, attualmente in corso di conversione in Parlamento.

Il tema esiste, ma a mio parere può e deve essere posto diversamente. Nella Pa, più ancora che di meno giuristi, abbiamo di certo bisogno di giuristi differenti dal modello tradizionale. Che è quello nel quale prevale, ancora troppe volte, la preoccupazione per la regolarità formale degli atti, con l’effetto di far rotolare in secondo piano la logica e la cultura del “risultato” complessivo cui l’azione pubblica tende e deve tendere. Una solida e immanente preoccupazione, quella, che affonda le sue radici in un processo amministrativo ancora troppe volte prigioniero della logica impugnatoria della “caccia all’errore” (l’errore, s’intende, sufficiente a determinare l’annullamento dell’atto di cui ci si duole), e/o in una “paura della firma” tanto evocata quanto incompresa, tutte le volte che si muova dal presupposto (errato) che essa si sostanzi nel timore di non uscire assolto dal processo anziché in quello di entrarvi (soprattutto per chi ha più da perdere, il processo è già di per sé una condanna).

Occorre rifuggire dalle semplificazioni, e intendersi: il sapere giuridico non è divenuto inutile, ma, oggi, deve necessariamente sapersi aprire e integrare – vorrei dire, disporsi a lasciarsi “contagiare”, nel senso migliore e più alto dell’espressione – con le altre culture e competenze professionali, accettando – e anzi, se possibile, ricercando – una reciproca “contaminazione”. In questo senso militano tante situazioni e tante positive esperienze, anche molto risalenti nell’architettura del sistema pubblico italiano, di organi collegiali a composizione mista, caratterizzati (e arricchiti) da un forte assortimento delle culture e delle competenze professionali: basti pensare, a livello statale, al Consiglio superiore dei lavori pubblici, o alla Commissione per la valutazione di impatto ambientale (in entrambi, i giuristi ci sono, seppure numericamente in minoranza rispetto a ingegneri, architetti, biologi, geologi, ecc.).

Il punto è che il “nuovo giurista” di cui ha bisogno la Pa deve, senza smarrire la sua identità, saper cogliere il senso “altro” delle cose. Quello economico, quello tecnico, quello sociale, quello – in una parola – non strettamente giuridico. Non deve ibridarsi troppo, smettendo di essere un giurista, ma al contempo deve saper individuare e cogliere il punto di sintesi con le altre prospettive, trovando con le professionalità tecniche con le quali è chiamato a lavorare gomito a gomito una comune lunghezza d’onda e, fin dove possibile, un linguaggio condiviso. In buona sostanza, una sorta di esperanto dell’azione pubblica (oggi, sempre più multidisciplinare), che riesca a fondere quelle culture e le rispettive tassonomie.

Perché questo possa accadere, è il caso di investire molto non solo e non tanto nei percorsi pre-reclutamento, ma in quelli per il personale già assunto. Potrà sembrare un’iperbole, ma occorrerebbe sancire il divieto espresso di somministrare formazione a chi è già assunto impiegando – come formatore – solo, o prevalentemente, chi è portatore di culture ed esperienze identiche o analoghe a quelle dei formandi (e questo non vale solo per i giuristi).
In conclusione, la principale sfida è sviluppare la capacità di formare generazioni di giuristi “differenti” dal modello tradizionale. Se potremo riuscirci davvero, lo scopriremo solo vivendo.

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