Pechino guarda a Kabul con un interesse legato alla sicurezza dello Xinjiang. Il rischio di osmosi tra gruppi jihadisti è una preoccupazione più importante delle opportunità lungo la Bri
Mentre gli Stati Uniti lasciano il Paese dopo venti anni di guerra alle formazioni jihadiste (Talebani e al Qaeda) e il tentativo non riuscito di ricostruire una statualità stabile, la Cina cerca il modo per rafforzare le proprie relazioni con l’Afghanistan.
La necessità è doppia. Stabilire un rapporto profondo attraverso cui garantire la sicurezza afgana, che diventa interesse nazionale per Pechino se si considera l’importanza che il confine tra Afghanistan, Pakistan e Xinjiang riveste sia per le dinamiche connesse alla presenza di realtà jihadiste all’interno della minoranza turcofona cinese (anche per questo oggetto delle politiche di controllo estremo ordinate dal Partito/Stato), sia per le rotte della Bri. La seconda necessità sta infatti nel rimpolpare la Belt and Road Initiative con l’inserimento afghano nella traiettoria di quello finora noto come Corridoio del Pakistan, accesso al mare eurasiatico della Via della Seta.
Senza Usa e Nato, creare i presupposti di sicurezza diventa carico cinese: Pechino vuole evitare che l’insorgenza talebana, mai dissociata nei fatti da al Qaeda, e la diffusione della Provincia del Khorasan dello Stato islamico possano sommarsi alle turbolenze di una minoranza degli uiguri nello Xinjiang. Contemporaneamente offre la piattaforma economico-commerciale per inserire l’Afghanistan nella propria sfera d’influenza, con un rischio che arriva dal vicino Pakistan però. Come raccontato su queste colonne, Islamabad ha chiesto la ristrutturazione di 3 miliardi di interessi su un prestito da 31 miliardi concesso dalle banche cinesi per finanziarie le infrastrutture energetiche di cui il Paese ha un disperato bisogno. Ma Pechino ha risposto negativamente, peggiorando la crisi economica pakistana.
Se agganciare Kabul al corridoio economico Cina-Pakistan è l’intento dichiarato durante un incontro virtuale tra i rappresentanti dei tre Paesi dal ministro degli Esteri della Repubblica Popolare, Wang Yi, l’obiettivo è più che altro difensivo. La dimensione geostrategica delle rotte afghane nella Bri è con ogni probabilità sovrastata dal timore di contatti al confine con lo Xinjiang, dove le osmosi jihadiste potrebbero creare un ulteriore problema in un’area in cui l’ossessione cinese per la stabilità ha già portato il Partito/Stato a esporsi sul piano dei diritti umani, sfregiati dalla campagna cinese contro le minoranze musulmane e per questo la situazione diventata danno di immagine enorme per la Cina.
Come fatto finora nei tentativi di mediazione tra Talebani e governo, per i cinesi l’interessamento all’Afghanistan è puramente egoistico. Lo scopo, il mantenimento della sicurezza nazionale — evitare che cellule jihadiste afghane, più libere di agire con il ritiro occidentale e le incapacità governative, creino relazioni stabili con gli uiguri perseguitati e usino la condizione della minoranza per diffondere istanze estremiste che possono avvelenare lo scontro con l’etnia Han.