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Perché tutti vogliono i microchip, la chiave per dominare il futuro

Se la capacità militare nei secoli precedenti era basata sui fucili a retrocarica, le navi da guerra o le bombe atomiche, nel XXI secolo potrebbe dipendere dall’uso dei sistemi tecnologici avanzati che alimentano le applicazioni dell’intelligenza artificiale. L’analisi di Maurizio Mensi, professore Sna, direttore di @LawLab Luiss Guido Carli e membro del Comitato economico e sociale europeo

Nel rapporto del 6 maggio 2021, il Comitato consultivo per la sicurezza nazionale delle telecomunicazioni (Nstac) è stato chiaro: un’industria microelettronica verticalmente integrata serve agli Stati Uniti non solo per supportare innovazione e leadership nell’economia globale, ma a garantire sicurezza economica e capacità di risposta in caso di emergenza. I chip sono presenti ovunque ed ecco perché, se i dati sono il “nuovo petrolio” nell’èra dell’informazione, la microelettronica è il “nuovo acciaio”.

Il problema è che gli Stati Uniti, pionieri dell’industria microelettronica, perdono gradualmente il vantaggio competitivo di cui disponevano, a dispetto di un ruolo ancora rilevante in ricerca e sviluppo svolto dalle loro università e aziende. Leader mondiale del mercato è Taiwan semiconductor manufacturing corporation (Tsmc) con una quota del 28%; segue Umc (13%), anch’essa di Taiwan, quindi la cinese Smic (11%) e la coreana Samsung (10%). Eppure oggi i chip sono diventati indispensabili per ogni Stato e la loro produzione ha assunto connotati geopolitici.

Se la capacità militare nei secoli precedenti era basata sui fucili a retrocarica, le navi da guerra o le bombe atomiche, nel XXI secolo potrebbe dipendere dall’uso dei sistemi tecnologici avanzati che alimentano le applicazioni dell’intelligenza artificiale. Mentre Intel, il principale produttore statunitense, sta perdendo posizioni, la Cina, che non è ancora autosufficiente e spende più per importare chip per computer che per acquistare petrolio, sta sviluppando la propria industria con investimenti colossali per ridurre la dipendenza dai fornitori d’oltremare e diventare leader mondiale entro il 2030. La dipendenza statunitense dalle importazioni in particolare da Taiwan, oltre alla mancanza di impianti nazionali per la produzione di prodotti all’avanguardia crea una pericolosa vulnerabilità strategica per l’economia e la difesa (l’esercito è infatti un importante fruitore di microelettronica avanzata): sono a rischio indipendenza tecnologica e sicurezza nazionale, oltre alla bilancia commerciale.

Consapevoli della propria debolezza, anche Giappone e Ue stanno intensificando gli sforzi per promuovere proprie industrie di semiconduttori, a beneficio di innovazione tecnologica e occupazione. Il commissario europeo Breton ha puntato sul raddoppio della capacità produttiva europea dell’ultima generazione di componenti, cioè a due nanometri (Nm), ritenuta essenziale per assicurare la sovranità europea.

Ibm ha annunciato il 6 maggio scorso di aver sviluppato il primo componente elettronico a due Nm: nonostante si tratti di un prototipo realizzato in laboratorio e la produzione su larga scala sia prevista non prima del 2024, si tratta di una svolta. Per fare un confronto, a metà del 2020 Tsmc è stata la prima a produrre in massa chip a cinque Nm e sta avviando ora l’industrializzazione dei componenti a tre Nm. I chip di Tsmc rappresentano circa il 55% delle vendite globali di semiconduttori, il ruolo di questa società nell’industria globale del settore, per capacità di spesa, investimenti, esperienza e rete di fornitori, è indicato come uno dei motivi per cui la Cina potrebbe ancora invadere l’isola di Taiwan.

In un mondo polarizzato, la preoccupazione maggiore di Tsmc è la crescente tensione geopolitica tra Stati Uniti e Cina. Infatti esistono ora due distinte catene di fornitura, l’una dominata dalla Cina, l’altra dagli Stati Uniti. In questo caso Tsmc, con due impianti di fabbricazione in Cina e uno nello Stato americano di Washington (e un altro previsto in Arizona), si trova ormai costretta a fare una scelta, scontata ma dolorosa.

Lo scorso aprile il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha aggiunto altri sette produttori di supercomputer cinesi alla cosiddetta Entity list per limitare il loro uso di tecnologie americane; la Casa Bianca ha ospitato anche un vertice virtuale sui semiconduttori, con la presenza dei rappresentanti dei primi tre produttori di chip al mondo (Intel, Samsung e Tsmc) oltre a diversi dirigenti di case automobilistiche, per discutere di come difendere la propria leadership nel settore dei semiconduttori. È stato proposto un programma di finanziamento da cinquanta miliardi di dollari e il presidente Biden ha firmato un ordine esecutivo per esaminare le ragioni della debolezza del settore esortando il Congresso ad approvare il Chips act (Creating helpful incentives to produce semiconductors) per rafforzare innovazione e produzione. Misure straordinarie, ma forse non sufficienti a invertire la rotta.

L’articolo è stato pubblicato su Formiche rivista di giugno



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