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I successi di Draghi e la strada in salita delle riforme

È vero che Draghi rimane una garanzia anche rispetto agli investitori esteri ma sembra che chi può investire sul Paese esiti perché non sa cosa avverrà dopo il Governo Draghi: se dopo l’esecutivo dei tecnici la strada stretta sarà subito occupata dal bosco o se si desidererà aiutare i tecnici e creare per essi uno spazio aperto. Il commento di Luigi Tivelli

I super poteri per concludere i progetti del Pnrr Mario Draghi li ha portati a casa e il luogo della gestione del Recovery Plan, con il consenso di tutti i partiti, sarà Palazzo Chigi, con il ruolo aggiuntivo del ministero dell’Economia. Analogamente dopo alcune fibrillazioni dei giorni precedenti il Consiglio dei ministri ha licenziato il decreto semplificazioni senza intoppi, con il plauso anche delle Regioni e del sindacato, sulla base di un “metodo consensuale” rivendicato da Palazzo Chigi, che è cosa ben diversa dalla concertazione, perché il pallino della decisione è rimasto ben fermo nelle mani del Presidente del Consiglio, senza che ha risultato acquisito volasse una mosca.

Non è che questo significa che di colpo le classi politiche dirigenti italiane sono diventate illuminate, ma sanno che in questa fase si devono affidare all’autorevolezza di Mario Draghi. È d’altronde questa la parabola che ha accompagnato altri governi istituzionali chiamati per le emergenze, che in altri casi derivava da crisi finanziarie, mentre questa volta è sanitaria. Nella prima fase partiti e quant’altro sospendono le reciproche ostilità e si riuniscono attorno al “commissario” chiamato a salvarli, o perlomeno lo lasciano lavorare. Poi quando si aprono varchi in seni all’emergenza, come sta avvenendo in questa fase, ciascuno prova a difendere il suo territorio ed emergono nuovi e vecchi populismi: dalla “dote” ai diciottenni del Pd, alla “tassa piatta” della Lega, alla lotta contro un principio di civiltà quale la prescrizione da parte dei 5 Stelle.

Da noi emergono poi casi unici al mondo, come quello del sindacato (e di qualche grande partito) che vuole mantenere il divieto di licenziamento per legge. Quindi si prospetta un bosco confuso dentro il quale Draghi si deve aprire la strada delle riforme legate agli oltre 200 miliardi di euro del Recovery. Chi garantisce che non tornino i particolarismi e rigurgiti identitari, le sirene populiste quando tra giugno e luglio sarà il momento della riforma dell’ordinamento giudiziario, delle misure sul reclutamento degli statali o – passaggio molto delicato –  del disegno di legge sulla concorrenza?

A quella data con buona probabilità, com’è da sperare, l’emergenza sanitaria ed anche economica sarà in larga parte passata e i particolarismi politico-corporativi troveranno ampio spazio per nuovi rigurgiti, anche se è probabile una tregua anche fra le tribù corporative. Bisogna contare sul fatto che nel frattempo molti gruppi di interesse si sono indeboliti e non hanno più poteri di veto, però in qualche partito possono trovare ascolto. È vero che Draghi rimane una garanzia anche rispetto agli investitori esteri ma sembra che chi può investire sul Paese esiti perché non sa cosa avverrà dopo il Governo Draghi: se dopo il governo dei tecnici la strada stretta sarà subito occupata dal bosco o se si desidererà aiutare i tecnici e creare per essi uno spazio aperto.

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