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Putin, Xi & Co. Se Draghi chiama i dittatori per nome

Altro che autoritarismi, autocrati e autocrazie. Mario Draghi ci ha abituato a chiamare per nome Xi, Putin e i loro amici. Alle dittature non bisogna fare sconti. Ma c’è chi, anche a Roma, preferisce usare i guanti. La riflessione di Marco Mayer

Oggi è diventato di moda parlare di autocrazie. Mario Draghi definisce il presidente Erdogan un “dittatore” ed Enrico Letta lo corregge: no, è un autocrate.

È chiaro che tecnicamente Letta ha ragione, ma c’è un rischio di cui nessuno parla. Il pericolo è che autocrazia resti un termine specialistico che non parla alla gente.

Autocrazia sta diventando una parola sempre più usata nel linguaggio politico e giornalistico, ma in modo talmente ampio da comprendere l’intero spettro dei regimi politici del pianeta, con l’ eccezione dei Paesi governati da vere democrazie liberali.

Per evitare di fare di ogni erba un fascio è più utile tornare alla distinzione classica tra regimi autoritari e regimi totalitari, peraltro utilizzata in modo proficuo dalla letteratura scientifica fino alla dissoluzione dell’ Unione Sovietica.

Per fare l’esempio più semplice è chiaro che, rispetto all’URSS, la Russia di Vladimir Putin non presenta le caratteristiche proprie dei totalitarismi, anche se non c’è dubbio (basti pensare al caso Navalny) che si tratti di un regime autoritario.

Ma oggi la domanda cruciale a cui gli studiosi e gli analisti dovrebbero rispondere è un altra: la Cina sta (ri) scivolando verso un sistema politico totalitario? Al di là delle dispute accademiche o terminologiche l’esperienza storica dimostra l’assoluta rilevanza di questo interrogativo.

Il totalitarismo è davvero una brutta bestia, o meglio si presenta come la minaccia più grave: basti pensare che le ideologie totalitarie sono direttamente responsabili delle peggiori tragedie del novecento, male assoluto compreso. Nonostante questo il termine totalitarismo è uscito dal dibattito politico e scientifico e nessuno ne parla più.

Dieci anni fa sul Dizionario Storico della Treccani il compianto Luciano Cafagna scriveva che definire totalitario il regime cinese era problematico perché alcuni spazi di libertà economiche si erano venuti progressivamente affermando negli ultimi anni.

In quella fase storica probabilmente Cafagna aveva ragione. Dopo la tragedia di piazza Tiennamen (1989) c’è stato un processo di parziale liberalizzazione degli scambi economici che ha anche portato alla scelta (forse prematura o azzardata) dell’ingresso della Cina nel WTO.

Tuttavia rispetto all’ analisi di Cafagna sono passati dieci anni e la realtà empirica e ideologica del sistema politico cinese é cambiata e sta tuttora rapidamente mutando.

A partire dal 2013 si è sviluppato un processo di involuzione politica interna che ha progressivamente reso più penetrante e oppressivo il controllo centrale del PCC sull’intera società cinese e accresciuto il peso degli stati maggiori militari.

Con il supporto essenziale dell’App Wechat (obbligatoria per tutti e per fare tutto) e dei più sofisticati sistemi tecnologici milioni e milioni di videocamere connesse le autorità governative hanno enormemente rafforzata la sorveglianza di massa.

Il famoso “Social Credit System” – esteso quest’anno all’intero territorio cinese – é solo uno degli strumenti utilizzati per il controllo dello stato su ogni singolo cittadino e su ogni singola impresa. E a quanto pare gli unici esenti sono i funzionari del PCC.

Tipiche caratteristiche dei regimi totalitari sono anche il rigido controllo del Partito sugli apparati dello Stato e le ambizione di potenza.
Sul versante esterno negli ultimi dieci anni la politica estera cinese appare più aggressiva soprattutto sul piano dell’espansione tecnologica e geoeconomica.

L’ espansione e’ a 360 gradi: dal monopolio mondiale dell’estratto di salsa di pomodoro alle esportazioni di tecnologie digitali; dalle reti mobili 5G a quelle fisse a banda larga installate in mezzo mondo ( compresi i cavi sottomarini in fibra ottica negli oceani).

Per non parlare delle imprese cinesi (pubbliche e ” private” ) ITC che mettono a repentaglio la nostra sicurezza perché hanno l’ obbligo di fornire agli apparati governativi di Pechino tutti i flussi informativi di cui dispongono.

Probabilmente il fenomeno più eclatante é l’ espansione del regime di Pechino in Africa; in questo caso peraltro la Cina ha abilmente riempito un colpevole vuoto di iniziativa del mondo occidentale.

Ma anche in Europa la Cina non scherza: Giorgia Meloni fa finta di niente, ma l’ Ungheria di Viktor Orban é ormai a tutti gli effetti una quinta colonna di Pechino nel nostro continente. E in Europa non c’è certo solo l’Ungheria….

A Pechino il cambiamento in direzione totalitaria è iniziato in sordina e forse per questo è stato colto con molto ritardo dalle diplomazie occidentali.

Questo processo (favorito enormemente dalle nuove tecnologie) persegue un modello di relazione tra Stato/Partito e Società che presenta alcuni sintomi totalitari un po’ in tutti i settori. Non penso che l’esito sia ancora scontato, ma guai a sottovalutarne i rischi.

L’ ideologia politicamente dominante in Cina è insidiosa perché integralista; essa nega a priori il valore delle libertà civili e religiose, nega spazio al libero pensiero e si contrappone esplicitamente alle democrazie e allo Stato di diritto di cui teorizza il fallimento nella sua propaganda quotidiana

È sbagliato fare una politica anticinese, anzi si devono cercare spazi di cooperazione bilaterali e multilaterali su clima, ambiente e Global Health. Tuttavia – come sostenuto da Draghi con la leadership cinese occorre avere il coraggio di parlare chiaro e con franchezza.

Per questo sui pericoli di un’evoluzione in senso totalitario é l’ora di accendere i riflettori, nell’interesse stesso della Cina. Altrimenti il mondo rischia di scivolare su un piano inclinato dagli esiti imprevedibili.

I paesi democratici hanno il dovere di lanciare un monito: le tentazioni totalitarie ed i pericoli ad esse connessi sono sempre in agguato. Per molti giovani totalitarismo é parola sconosciuta. Forse é il caso di rimetterla al centro dell’attenzione internazionale. E’ una sfida necessaria nei giorni in cui persino ad Hong Kong viene abolita la libertà di stampa.

In nome della libertà di insegnamento e della ricerca per gli stessi scienziati sociali e gli storici cinesi è una rilevante opportunità da cogliere.

Studiare il totalitarismo è, infatti, un campo di ricerca che può stimolare interesse anche nella accademia cinese che ha costruito negli anni relazioni internazionali di grande spessore con le università e i sistemi educativi di tutto il mondo.

L’auspicio è che Pechino non decida di auto isolarsi bloccando i numerosi e fruttuosi scambi interuniversitari che si sono sviluppati con successo in tutte le discipline scientifiche tra i più prestigiosi atenei europei, americani e cinesi.

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