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Quanto conta la sorella di Kim nei rapporti Usa-Pyongyang

Il rapporto tra Usa e Corea del Nord passa anche dalle dinamiche interne al potere di Pyongyang. Gli americani percepiscono il rischio di finire impelagati in certe questioni e lasciano indietro il dossier

La sorellina terribile del satrapo nordcoreano Kim Jong-un, Kim Yo-jong, cerca spazi e posizioni all’interno del regime. Numero due della gerarchia, per un periodo di tempo era stata data per leader in sostituzione del fratello, ritenuto morto — e quanto meno ha fatto da reggente durante la convalescenza da un’operazione cardiaca che lo aveva tenuto lontano dagli incarichi.

Recentemente, con una dichiarazione a sorpresa si è inserita nel dibattito sugli Stati Uniti, con cui il fratello aveva provato ad aprire un rinnovato contatto accettando il pressing del presidente Donald Trump — il quale aveva come interesse di carattere politico-elettorale il chiudere un qualche genere di accordo con uno dei grandi nemici dell’America, ma gli è andata male con tutti.

Yo-jong ha detto due giorni fa che “è un sogno” la possibilità che Washington e Pyongyang possano tornare al dialogo diplomatico. Dichiarazione rivolta tanto agli americani quanti all’establishment nordcoreano, se si considera che a sollevare l’ipotesi era stato il fratello.

La settimana scorsa, parlando davanti alla plenaria del Partito dei lavoratori, Kim aveva chiesto all’assemblea di prepararsi sia per un confronto sia per la diplomazia con gli americani. A Washington c’era stato un tiepido interessamento davanti a quello che — sebbene intriso di retorica — sembrava un timido segnale per riavviare qualche contatto. “Segnale positivo” lo aveva definito il Consigliere per la Sicurezza nazionale.

La sorella del leader ha fermato ogni entusiasmo, e nel prendere una posizione contro il nemico statunitense ha smentito di fatto il fratello. Nel linguaggio iper-misurato della satrapia certe prese di posizioni contano, e raccontano di come la rivalità interna esista. Percezioni laterali perché il Paese è costantemente oscurato da una cortina fumogena informativa che permette anche la sopravvivenza del potere e la sua protezione.

Queste sistemazioni interne al regime sono una delle ragioni per cui gli Stati Uniti hanno — almeno temporaneamente — messo da parte il dossier. Affrontarlo in modo diretto è troppo rischioso, e l’amministrazione Biden non sembra ansiosa di chiudere un qualche deal come la precedente.

In modo simile al dossier iraniano, sebbene con differente intensità e attenzione, manca l’incrocio di priorità al momento. Washington vuole una Corea del Nord denuclearizzata, e ritiene difficilmente accettabile al momento l’inserimento di Pyongyang in un qualche dialogo sul controllo degli armamenti come fosse una potenza atomica (Trump, pur di chiudere, aveva iniziato a farci un pensierino realista).

Il Nord ha problemi attorno al potere, e per questo non vuole mostrarsi debole facendo concessioni. Ma ha bisogno di sostegno economico, e da qui potrebbe passare il futuro. Se infatti i nordcoreani accettassero uno sganciamento dalla Cina per un affidamento più ampio ai cugini del Sud (clientes americani), allora gli Stati Uniti potrebbero anche cambiare atteggiamento e uscire dalla linea attendista. Ma per questo al momento mancano i presupposti.

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