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Transizione green sì, ma occhio alla Cina. Scrive Harth

Il carbone ha fatto la rivoluzione industriale, il petrolio sancito l’egemonia statunitense nel Novecento. Questa è l’era delle rinnovabili e la Cina è leader del settore. Ecco cosa significa per la ripresa e gli investimenti europei. Il commento di Laura Harth 

Non è tutto oro quel che luccica. Men che meno nella cosiddetta transizione verde, parola d’ordine per il prossimo trentennio e il Recovery plan post Covid-19. Un business miliardario che in Italia – come ricordato da Gabriele Carrer su queste pagine – avrà un valore di almeno 55,4 miliardi di euro, rappresentando la fetta più grande degli investimenti pubblici per la ripartenza. Oro quindi sì, ma basta grattare un pochino per vedere che sotto rischia esserci poco di brillante. Anzi, rappresenta l’ennesima partita in cui la Cina, la “fabbrica del mondo” – anche se la Repubblica popolare tale non vorrebbe più essere –, potrebbe riuscire, ancora una volta, a sussidiare il suo sistema marcio con i contribuenti ignari in tutti gli angoli del mondo occidentale.

Da alcuni anni osservatori e attivisti politici mettono in guardia dall’evidente divario creato tra le crescenti critiche e condanne del regime comunista cinese per le sue evidenti crimini contro l’umanità e i puntuali richiami ufficiali alla necessità di una stretta collaborazione con Pechino per raggiungere gli obiettivi climatici. Sotto la precedente amministrazione americana, tale divario era evidente in particolar modo nell’Unione europea, che alle caute preoccupazioni per l’ennesima ingerenza a Hong Kong – ormai completamente stretta nelle grinfie di Pechino – o le incessanti prove sui crimini contro l’umanità nello Xinjiang faceva seguire a stretto giro una forte comunicazione circa la cooperazione fondamentale con il Dragone sul clima.

Dichiarazioni e obiettivi a dir poco ingenui, ma accolti con grande fervore da Pechino che non mancava occasione per ergersi a partner multilaterale responsabile al fianco dell’Europa, proclamando a gran voce l’irresponsabilità degli Stati Uniti usciti dagli Accordi di Parigi. La transizione verde ed energetica come arma di propaganda e distrazione di massa, di cui il Partito comunista cinese ha fruito in più di un modo nella ricerca di spaccare il blocco dell’alleanza democratica e cercherà a tutti costi di continuare a farlo.

Ma il vento sembra essere cambiato. Dal piano B3W del G7 agli appelli del segretario di Stato americano Antony Blinken ai partner europei circa la destinazione finale degli investimenti green e i controlli sulle catene di approvvigionamento, la consapevolezza che la sopravvivenza del modello democratico e liberale è strettamente legata alla capacità di tenere insieme tutti i suoi valori sottostanti, dal commercio libero ai diritti umani, sembra finalmente tornata al centro del dibattito.

Che i filoni siano strettamente legati è sempre più evidente. La violazione continua degli accordi internazionali in temi dei diritti umani comincia in modo imponente a invadere anche il mondo delle imprese. Ne sono dimostrazione non solo gli imprenditori cinesi silenziati come il tycoon Jack Ma, ma anche aziende internazionali come la Hsbc, che nonostante l’intento di uniformarsi ai dettami di Pechino si ritrova sempre di più in una stretta pericolosa.

La stessa Greta Thunberg, per certi versi paladina utile ai fini di Pechino in quanto ha messo al centro del dibattito mondiale la questione climatica, distogliendo così attenzione del pericolo e dei crimini cinesi, è stata rimproverata duramente dal Dragone per il suo appello al rilascio dei 12 giovani hongkonghesi fino a poco tempo fa detenuti a Shenzhen nella Cina continentale per aver cercato di sfuggire la città sotto assedio.

Abbiamo già scritto più volte delle gravi accuse circonstanziate da crescenti prove circa l’utilizzo del lavoro forzato degli Uiguri, al punto che quasi tutti i pannelli solari venduti nell’Unione europea hanno origine nella regione oppressa dello Xinjiang, con operatori europei del settore che affermano che il potenziale utilizzo del lavoro forzato per produrre materiale incluso nei pannelli solari importati nell’Unione è “un segreto di pulcinella”.

A voglia parlare – come anche nella difesa dell’Accordo complessivo sugli investimenti (Cai) – dei controlli sulle supply chain, scaricando la responsabilità secondo i Trattati europei sulle singole aziende già sottomessi al commando del dittatore di Pechino se vogliono mantenere la loro posizione nel Paese e mentre piovono i rapporti sulla repressione esercitata anche sulla aziende di auditing come rivela ancora Axios. Il tutto mentre come scriveva Politico già mesi fa, “i componenti solari possono essere prodotti in Europa. Le aziende che li producevano erano qui fino al 2012, ma sono fallite quando le tariffe europee utilizzate per affrontare la sovrapproduzione e i sussidi cinesi sono state rimosse, consentendo le loro aziende di farci una concorrenza micidiale”.

Non devono sorprendere quindi quelle parole del segretario Blinken riportate sul Corriere: “Il rischio, ben chiaro agli americani come agli europei, è che parte delle centinaia di miliardi di euro del Recovery vadano a finire in Cina, piuttosto che alle aziende europee”, rendendoci – volenti o nolenti – tutti complici delle atrocità del regime.

Ma i venti oscuri della transizione energetica che soffiano da Pechino non si fermano al lavoro forzato. Come accennato prima, uno Stato che viola quotidianamente tutti i suoi impegni internazionali, siano essi sui diritti umani, sullo status di Hong Kong, sulle regole e la trasparenza imposta sotto gli accordi del Wto, o sulla collaborazione leale con l’Oms, ha poco credibilità da spendere sui suoi impegni green.

Infatti, come elenca in modo eloquente il primo rapporto complessivo su tutte le sfide poste dalla Cina nell’ambito della transizione energetica “Sottomessi alla Cina nella transizione verde”, scritto dal giornalista Enrico Salvatori e dall’ingegnere minerario Giovanni Brussato, mentre da un lato Pechino si è impegnata in modo molto ambizioso e molto pubblico per diventare carbon neutral entro il 2060, dall’altro raggiungerà il picco delle emissioni solo entro il 2030, questi obiettivi sono in contrasto con quelli economici – altrettanto ambiziosi e soprattutto prendendo precedenza sugli impegni climatici come ribadito ultimamente dell’agenzia per la pianificazione economica cinese – e quelli legati alla sicurezza energetica.

Il rapporto elenca le notevoli contraddizioni tra le dichiarazioni nei forum multilaterali e quanto accade realmente nel Paese, dove il partito unico al potere sa che la sua sopravvivenza dipende innanzitutto dalla sua capacità di mantenere un livello di crescita difficilmente compatibile con una transizione velocizzata. “Infatti, l’unica economia mondiale in crescita nel 2020, l’anno della pandemia, ha aumentato la produzione energetica con il carbone di 29,8 GW netti, includendo le dismissioni, mentre il resto del mondo ha effettuato tagli per 17,2 GW. Inoltre, sempre nel 2020 sono stati proposti oltre 73 GW di nuovi progetti di energia a carbone, cinque volte di più del resto del mondo messo insieme”.

Inoltre, anche “l’espansione della sua rete di oleodotti e gasdotti sta mettendo l’Impero di mezzo ‘in rotta di collisione’ con il suo ambizioso obiettivo. Un rapporto del Global Energy Monitor afferma che la Cina ha 34.273 chilometri di oleodotti per il trasporto di petrolio in costruzione o in fase di pianificazione: più di qualsiasi altra nazione, in base alla lunghezza totale dei progetti”.

E come sempre, l’impatto delle sue politiche non si ferma ai suoi confini ma viaggia sulla famigerata Via della Seta (Bri). “Un nuovo rapporto di Endcoal ha evidenziato i crescenti investimenti in combustibili fossili di Pechino all’estero: è la più grande fonte di finanziamento per i progetti di produzione di energia basati sul carbone in Africa. Un rapporto pubblicato lo scorso anno dalla Tsinghua University, Vivid Economics e ClimateWorks Foundation ha rilevato che se le 126 nazioni Bri non ridurranno le loro emissioni, le temperature globali saliranno di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali, indipendentemente dalle azioni intraprese dagli altri Paesi”.

Se tutto questo non bastasse, per metterci in guardia e riconoscere che l’Europa ha tutto l’interesse a cogliere con enorme urgenza l’avvertimento di Blinken prima di versare somme ingenti all’Impero di mezzo, basterebbe ricordare il nuovo mantra dell’autonomia strategica. Una rivendicazione in forte contrasto con la cruda realtà odierna che ci dice che ad oggi siamo altamente dipendenti dalla Cina visto che, come scrivono ancora Salvatori e Brussato nel rapporto pubblicato dalla Fondazione FareFuturo:

“Una transizione verso un pianeta ‘rinnovabile’ richiederà ingenti quantità di metalli e minerali, elementi costitutivi delle tecnologie verdi e digitali. Laddove il carbone ha fatto la rivoluzione industriale, il petrolio ha sancito l’egemonia statunitense nel Novecento, il nuovo mondo delle rinnovabili ha bisogno del suo carburante. Ed è chiaro che chi lo controlla è in posizione di vantaggio. Al momento è la Cina l’indiscusso leader del settore, del quale detiene, in taluni ambiti, anche l’80% della produzione totale mondiale, sfiorando livelli monopolistici. Un posizionamento che è già un’arma geopolitica a disposizione del Partito comunista cinese e che potrebbe avere fortissime ripercussioni sull’Europa e sui sogni del Green New Deal e della sovranità tecnologica tanto auspicata. La guerra dei metalli rari infatti è già qui”.


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