Stancata da dieci anni di operazioni sul campo e lotta al terrorismo, la Francia di Emmanuel Macron fa un passo indietro in Sahel. Per l’Ue e l’Italia, grazie alla leadership di Emanuela Del Re, si apre un’occasione imperdibile. L’analisi di Armando Sanguini, Senior Advisor Ispi, già ambasciatore italiano in Tunisia e Arabia Saudita
Ha ragione Emanuela Del Re, già vice-ministra nel governo Conte 2, e appena nominata Rappresentante speciale per l’Unione europea nel Sahel, quando afferma che “La geografia fisica, politica e umana fanno del Sahel la vera frontiera dell’Europa”; quando sottolinea che “Il Sahel è una priorità strategica per l’Ue e i suoi Stati membri, e quando dichiara che “l’Ue è impegnata per la sicurezza e lo sviluppo del Sahel di cui l’Unione è il partner principale della regione”. Senza sottovalutare in particolare le responsabilità del partner francese, ex potenza coloniale di ben 7 (Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso, Chad, Senegal e Algeria) dei 10 paesi che compongono questo gigantesco diaframma africano.
Un diaframma, il Sahel, che si estende per oltre 2 milioni di Km, dall’Oceano atlantico al Mar Rosso, che divide e collega il Nord africa all’Africa tropicale ed è marcato da anni, troppi anni, da criminali traffici di esseri umani e di armi, da sanguinose scorribande del terrorismo islamista, da conflittuali rivendicazioni tribali, dalla piaga della miseria, della malnutrizione, della carenza d’acqua e da una diffusa cancrena istituzionale di cui il Mali è solo l’ultimo e più dirompente esempio.
Si tratta di un preoccupante crogiuolo di ingredienti che non abbiamo, noi europei, alcun interesse a lasciar fermentare, Ce l’abbiamo alle porte e costituisce una minaccia di cui negli anni scorsi abbiamo già sofferto alcune gravi ripercussioni in termini di attacchi terroristici e di un’incontrollata pressione migratoria.
Certo non è un caso che sia stata proprio la Francia, l’ex-potenza coloniale da sempre alla ricerca di un ruolo attivo, anche pesantemente attivo nell’area, che senza rinunciare ad una esibita grandeur, abbia dato crescenti segnali di consapevolezza che questa sua aureola stava ormai diventando troppo onerosa e poco gratificante.
E che dunque era arrivato il momento di cominciare a passare la mano dopo anni, oltre un decennio, trascorsi all’insegna di massicce operazioni militari (da Serval nel 2013 a Barkhane nel 2014) che avevano portato all’impiego di oltre 5mila soldati. Passare la mano ma, nelle intenzioni almeno, continuando a mantenere un ruolo centrale.
In quest’ottica viene tessuta la trama che porterà nel 2017 alla creazione della “Alleanza per il Sahel” con l’Unione europea, Germania in testa, estesa alla Banca Mondiale, alla Banca africana di sviluppo, all’Undp e successivamente anche all’Italia e ad altri paesi membri della UE. Ed è su questa base che si innesca un’importante dinamica politico-diplomatico-militare che trova il baricentro nel vertice di Pau dove, sempre su iniziativa di Parigi (2019) si prefigura la creazione di una Task Force europea di forze speciali da affiancare all’operazione Barkhane in debito di adeguato supporto operativo degli “alleati”.
E in quella sede Parigi e i G5 Sahel concordano sull’esigenza di una nuova cornice politica, strategica e operativa di lotta contro i gruppi terroristici nel Sahel. Si tratta della ben nota “Coalizione per il Sahel” (con Barkhane al centro) imperniata su 4 pilastri: lotta al terrorismo; rafforzamento delle capacità militari degli Stati nell’ambito della Partnership per la stabilità e la sicurezza nel Sahel; sostegno della governance; cooperazione allo sviluppo.
Dopo qualche esitazione anche l’Italia – intesa Macron – Conte nel vertice di Napoli del febbraio 2020 – decise di aderirvi (Task Force Takuba) anche lo realizzerà concretamente solo nel marzo scorso.
E sarà in quello stesso anno che l’Unione europea e il G5 Sahel, col supporto delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana potranno affermare il comune impegno per la sicurezza, la stabilità e lo sviluppo del Sahel. Lo annuncerà il Presidente del Consiglio della Ue, Charles Michel, con le parole seguenti: “abbiamo convenuto di operare con i nostri Partner del G5-Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, n.d.r.) per combattere il terrorismo e garantire la sicurezza, la stabilità e la pace della regione. È importante convincere altri Partner internazionali ad aderirvi”.
Un reclutamento internazionale per il Sahel, dunque, dove la Francia forse aspirava ad una persistente centralità di ruolo, ma che i fatti non confortavano, né nel Sahel dove il suo approccio politico-militare da ex-potenza coloniale emergeva sempre più osteggiate in loco, né in una Francia stanca per le vittime e per l’alto passivo di bilancio.
Ad esaltarsi, paradossalmente, parevano essere proprio il terrorismo jihadista, il mercato dei migranti e delle armi, il malgoverno, la corruzione e la miseria, mentre gli “alleati” latitavano mentre affioravano all’Eliseo crescenti dubbi sul futuro del trainante binomio franco-tedesco nella UE con l’approssimarsi del dopo-Merkel.
Tutti fattori corroboranti l’opportunità di un approccio francese di maggiore apertura verso altri partner, tra i quali l’Italia, che con l’avvento del Presidente Draghi (e l’uscita della Gran Bretagna) appariva suscettibile di rivestire un ruolo più significativo nel contesto europeo. Con le inevitabili ricadute, come si è visto, anche nei riguardi dell’approccio alla Libia.
Poi i classici imprevisti che fanno precipitare le decisioni: la morte del Presidente del Ciad, un prezioso alleato nella lotta contro i ribelli e il nuovo colpo di Stato militare in Mali.
Il Presidente Macron con un occhio anche alle prossime elezioni, decide di cambiare passo e annuncia il disimpegno dall’onerosa operazione Barkhane e la conseguente necessità di revisione della complessiva strategia operativa internazionale verso il Sahel, verosimilmente in una chiave volta a privilegiare le operazioni di intelligence e in remoto. Con una Francia meno protagonista.
Ne vedremo gli sviluppi e, fatto rilevante, li vedremo con l’ausilio della lente poderosa di Emanuela Del Re nella sua veste di Rappresentante speciale per l’Unione europea nel Sahel come ricordato all’inizio. Una Del Re che ha le idee chiare sul da farsi come raccontato dalla stessa nell’intervista rilasciata il 3 giugno scorso a questo giornale. E che avrà bisogno di tutta le sue carte di competenza, di chiarezza di idee e di determinazione per portare avanti questo incarico che si profila davvero impegnativo, delicato e non esente da insidie.
Sarà nell’assoluto interesse italiano sostenerla perché ben sappiamo come le criticità del Sahel siano state e siano tuttora foriere di nostre potenziali fonti di criticità.