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Serbia-Bosnia, cosa resta dopo la condanna di Mladić

Una sentenza può chiudere un processo, non la Storia. E quella di sangue e violenza che si è lasciato Ratko Mladić è destinata a restare una ferita aperta nei Balcani. Il commento di Igor Pellicciari (Università degli Studi di Urbino)

L’8 giugno 2021, con un mese in anticipo rispetto alla data della sua ricorrenza di luglio e delle puntuali commemorazioni dedicatele ogni anno, si è tornato a parlare del massacro di Srebrenica.

Né poteva essere altrimenti, davanti alla condanna in secondo grado all’ergastolo dell’ ex- generale serbo bosniaco Ratko Mladic, accusato di essere l’artefice di quella che è stata la pagina più oscura e tragica della storia europea del secondo dopoguerra.

Che scosse profondamente il mondo dell’epoca e convinse gli Usa dell’Amministrazione di Bill Clinton a intervenire direttamente per porre fine al conflitto in Bosnia ed Erzegovina (per la cronaca, la più forte denuncia americana di Srebrenica fu proprio di Joe Biden in un memorabile discorso, di cui molti bosniaci ancora oggi gli sono grati).

Per chi ha vissuto quelle vicende in prima persona, l’esito del processo era scontato ma comunque atteso con impazienza, nella speranza che tagliasse il cordone ombelicale con un passato tragico, di cui nessuna persona normale può auspicare un ritorno, nemmeno parziale.

Eppure, per come è maturata, la sentenza non solo non ha chiuso il capitolo delle responsabilità individuali di quanto accaduto nella guerra, ma addirittura sembra avere esacerbato le divisioni etnico-politiche nell’area.

Basta ricordare il leader serbo-bosniaco e membro della Presidenza collegiale a Sarajevo, Milorad Dodik (peraltro netto oppositore parlamentare di Radovan Karadzic all’epoca dei fatti di Srebrenica e – va detto- a loro totalmente estraneo) è arrivato a parlare di sentenza senza giustizia, con condanna collettiva pregiudizievole contro il popolo serbo.

In altri tempi, sono dichiarazioni che avrebbero infiammato piazze e curve degli stadi di calcio. Oggi sono solo triste indicatore di un paese da decenni intrappolato nel limbo del dopo-la-guerra-prima-della-pace.

Tra i motivi di questa azione giudiziaria incompiuta (chiamarla fallimentare sarebbe troppo ingeneroso per i risultati comunque raggiunti) vi è il ruolo stesso del Tribunale Penale Internazionale per l’Ex-Jugoslavia, la discutibile struttura e contradittoria organizzazione dei lavori che si è data in questi anni.

Pochi degli obiettivi che con la sua nascita si era prefissata la Comunità Internazionale sono stati raggiunti.

Istituto nel 1993, nel pieno del conflitto bosniaco, avrebbe dovuto in primo luogo fungere da deterrente per il ripetersi di quei crimini di guerra le cui caratteristiche gotiche avevano già impressionato in massacri precedenti (come a Bijelina, Brcko, Zvornik, Doboj solo per citare i più noti).

Invece, il massacro di Srebrenica si era tenuto due anni dopo, nel 1995, addirittura provocatoriamente annunciato e sotto la luce del sole, così come altri episodi che sarebbero seguiti nella mattanza prima in Bosnia e poi in Kosovo, accomunati dall’essere gesti criminali rivolti contro inermi civili, spesso ad opera di bande paramilitari.

Conclusisi i conflitti balcanici, il dopoguerra ha fisiologicamente rappresentato un contesto che ha valorizzato il lavoro del Tribunale, sottolineandone però al contempo i principali punti deboli.

Che hanno riguardato aspetti giudiziari, politici e istituzionali, spesso legati tra loro in forma osmotica; ancora più evidenti se paragonati a quello che è stato il Tribunale Internazionale militare di Norimberga, precedente storico di riferimento per ogni procedimento penale contro crimini di guerra.

Rispetto a Norimberga, che cadeva in un quadro chiaro di sconfitta del nazismo, la principale sfida esogena dell’Aia è il districarsi in un contesto bosniaco dove la fine delle ostilità segnata dagli accordi di pace di Dayton (sottoscritti solo 5 mesi dopo Srebrenica) non è riuscita a definire con chiarezza un quadro politico-istituzionale dei vincitori.

Non tanto sul piano militare quanto dei valori costituzionali del nuovo Stato, che hanno di fatto sancito quella divisione su base etnico-religiosa, perseguita da quegli stessi nazionalismi che avevano scatenato il conflitto.

Delegare la determinazione di una verità storica post-bellica condivisa non ad un livello politico-istituzionale (passaggio brutale ma necessario in ogni dopo-guerra) ma ad una via giudiziaria internazionale, che persegua azioni criminali più che le idee che le hanno ispirate, porta alla politicizzazione della giustizia.

Con tutti i molteplici risvolti del caso, ben noti a chi segue il caso italiano (da Tangentopoli fino alla scarcerazione di Giovanni Brusca, passando per il caso di Luca Palamara).

Inoltre, la lettura politica degli avvenimenti giudiziari e gli effetti negativi sono ancora più devastanti se la giustizia (per inciso, non solo quella sui crimini di guerra) si esprime con anni di ritardo.

Mentre Norimberga deve l’impatto anche all’avere finito i lavori in un solo anno, la condanna a Mladic cade ben 26 anni dopo Srebrenica. Ha perso molto del suo significato originario, lasciando dei vuoti interpretativi che vengono colmati dagli attori politici del momento.

Il che porta ad una considerazione finale, di carattere istituzionale.

Non è un caso che l’Aia e Norimberga vengano comunemente associate in forma genitiva a due sostantivi diversi: la prima a “Tribunale”, la seconda a “Processo”.

Il Tribunale dell’Aia si è andato istituzionalizzando in questi decenni come Organizzazione Internazionale a sé stante, sia per i rilevanti costi di gestione che per il personale amministrativo permanente che vi lavora.

Questo processo di burocratizzazione ha portato con se il fenomeno classico della trasposizione dei fini, con l’Organizzazione interessata a perseguire, oltre che gli obiettivi per cui è stata istituita – anche il proprio mantenimento in essere. Da questo punto di vista, i processi del Tribunale dell’Aia sono stati allestiti e gestiti come veri e propri progetti di assistenza tecnica che ne hanno giustificato sopravvivenza e sviluppo organizzativo.

Col danno collaterale di avere così contribuito ad appesantire oltremodo la procedura processuale e moltiplicato i passaggi intermedi necessari per arrivare ad una sentenza definitiva nei vari procedimenti.

Il Processo di Norimberga invece non andò giuridicamente troppo per il sottile nel giudicare i gerarchi nazisti (e non si trasformò a sua volta in un Tribunale permanente).

Forse proprio in questo sta il successo nell’avere segnato una rinascita della società tedesca post-bellica.

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