Il ddl Zan ha un indiscusso merito, ma anche un limite di impostazione. Il merito: chiedere al parlamento di legiferare su un fenomeno (l’omofobia) in costante crescita, con il suo effetto devastante sulle singole persone e sulla pace sociale e politica. La riflessione di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma
In molti Paesi democratici il complesso rapporto tra Chiesa cattolica e Stato è strettamente legato alla discussione sul termine laicità. Un lungo cammino storico ha portato la comunità cristiana e le democrazie occidentali a sancire questa laicità e autonomia, anche nelle carte costituzionali (art. 7 della Costituzione), come nel magistero cattolico (Gaudium et Spes, 76). Ogni forma d’ingerenza, da ambedue le parti, non solo non è ammissibile, ma è eticamente grave perché lede la natura e la dignità delle due istituzioni in questione. Tuttavia i problemi non sono mai mancati: quello del ddl 2005 (Zan) è uno dei tanti tasselli di questo complesso e problematico rapporto.
La totale indipendenza, sovranità e autonomia, infatti, non comporta una distanza assoluta e chiusura reciproca. Nel pensiero cattolico è individuato un punto d’incontro tre le due istituzioni: il servizio al bene del singolo e dell’intera comunità (GS, 76). Perché l’autonomia e l’indipendenza non siano concepite come distacco assoluto, il magistero ecclesiale pone l’accento sul termine “collaborazione”. Essa è una collaborazione che assume diverse forme, secondo le svariate circostanze di luogo e di tempo ed è mirata ad un servizio intelligente e concreto al bene comune.
Su questi fondamenti dottrinali s’innesta tutta la ricca storia del rapporto tra Chiesa cattolica e Stati nazionali. L’innesto, va riconosciuto, non sempre è facile, Né tanto meno scevro da errori da ambedue le parti. In generale si può affermare che gli errori nascono quando una delle istituzioni chiede forme di sostegno, non orientate al bene comune, è poco incline al dialogo e alla condivisione, solo tesa a consolidare le proprie posizioni, assoggettando l’altra istituzione ad esse.
È ovvio che le visioni di bene comune possono essere e sono diverse: i presupposti teorici del magistero cattolico non sono quelli della Carta costituzionale, anche se in alcune Carte sono molto vicini, grazie all’apporto dei credenti nella stesura di essa. Il dialogo serve allora a scoprire reciprocamente quale progetto di bene comune le parti posseggono e quali strumenti indicano per attuarlo. Tuttavia, nell’ambito dello Stato, l’ultima decisione spetta al potere politico (parlamentare nel nostro caso), in quanto garante primo e ultimo (come lo stesso magistero ripete) del bene comune. Aristotele direbbe che la politica è la scienza “più autorevole [kyriotáte] e più architettonica [architektoniké]” e mira a realizzare il bello e il giusto della pólis, cioè il suo bene, che è lo stesso di quello del singolo (eudemonia) ma è più importante e più perfetto di esso.
Consegue che dopo il dialogo e il confronto con le tutte le istituzioni, l’autorità politica, nelle sedi legittime, decide quale bene comune promuovere e come realizzarlo. È ovvio che queste decisioni possono non essere condivise da altre istituzioni sovrani e indipendenti presenti sul territorio nazionale. È il caso della Chiesa cattolica e delle sue posizioni inerenti a leggi che toccano l’etica della persona, della famiglia, come della giustizia, del bene comune e della pace. In questi casi va coniugato il rispetto dell’autonomia e indipendenza dello Stato con il rispetto dell’autonomia e indipendenza della coscienza personale. Ogni credente, di qualsiasi religione, sa bene che il suo vincolo a Dio è più forte di quello verso lo Stato. Tuttavia questo non vuol dire che un cristiano – che è anche cittadino – viva una laicità a metà. Significa invece che vive la sua cittadinanza nella piena obbedienza a quanto lo Stato prescrive, con la libertà di opporsi, portandone le relative motivazioni e conseguenze, quando gli è comandata qualcosa contro la sua coscienza.
La Chiesa è libera di annunciare il Vangelo e, alla luce di esso, valutare la realtà sociale, culturale, economica e politica, in cui svolge la sua missione. Per quanto detto prima non sorprende che possa incontrare opposizione o appellarsi alla libertà di coscienza, qualora non condivida alcune leggi e prassi statali. All’autorità statale spetta il compito di governare questo processo di confronto culturale e legislativo, tra le diverse componenti sociali, fatto salvo, da una parte, il pluralismo e la libertà religiosa e, dall’altra, la difesa dei principi democratici. In una democrazia, concepita dinamicamente, i problemi non possono essere risolti una volta per sempre, ma si devono affrontare, di volta in volta, le emergenze – si pensi alle tante poste dalla globalizzazione, dalla giustizia sociale, dal problema immigrazione o dalla bioetica – con l’aiuto di tutti e per il bene di tutti. Molte volte si tratta di “far quadrare il cerchio” – per usare la felice espressione di Darhendorf – tra libertà personali, coesione sociale e benessere.
Sono fra quelli che pensa che il decreto Zan abbia un indiscusso merito, ma anche un limite di impostazione. Il merito: chiedere al parlamento di legiferare su un fenomeno (l’omofobia) in costante crescita, con il suo effetto devastante sulle singole persone e sulla pace sociale e politica. Il difetto: ritengo che il disegno di legge sia ideologico. Non è nella natura di una legge particolare definire, come si legge nell’art. 1, sfere della realtà personale come “sesso, genere, identità di genere”; tema, tra l’altro, su cui è difficile trovare studiosi (dei diversi saperi) concordare in materia, come singoli cittadini. Materia troppo complessa e complicata. A mio avviso sarebbe bastato quanto il presidente G. M. Flick ha ben precisato: “Sto alla Costituzione, che – al pari della razza, della lingua, della religione e delle opinioni politiche – testualmente vieta che il “sesso” possa costituire una motivazione di diseguaglianza e di diminuzione della pari dignità sociale”. Alla luce di ciò (e della legge Mancino) Flick afferma: “Sarebbe più logico e più semplice parlare di sesso in tutte le sue manifestazioni ed espressioni personali” (Avvenire,11.5.21), senza addentrarsi in definizioni particolari che andrebbero poi fatte per ogni mancanza d rispetto, violenza, abuso e reati vari che ineriscono alla sfera della dignità e integrità della persona. Senza dimenticare che non abbiamo bisogno di una nuova visione di persona (che è già nella Costituzione) ma abbiamo bisogno di sanzionare, o inasprire le pene, qualora la persona è compromessa in tutto il suo universo individuale. Questo impegno contro la violenza, relativo alla discriminazione di genere (come di altre), non è opinabile o rimandabile, sia da parte di un’istituzione laica o religiosa che sia, come del singolo cittadino/a cristiano o ebreo o musulmano o ateo o agnostico o altro che sia. Nessuno escluso: questo lo chiede la Costituzione e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Non si può e non si deve mai transigere sul rispetto di tutta la persona umana e di tutte le persone umane.
Spostando l’attenzione dalle definizioni di carattere sessuale alle discriminazioni sulla persona evitiamo di inasprire il dibattito e salviamo il dialogo sereno e costruttivo. L’Italia è sempre a rischio di contrapposizione ideologica. E quella clericale-anticlericale è una delle più longeve e dannose. Scriveva lo storico Giacomo Martina che clericali e anticlericali, a furia di litigare, ottengono l’effetto di “distrarre dai veri problemi”.