Nell’applicazione del Pnrr sono tre le parole che devono essere poste al centro di ogni strategia: sviluppo (e non crescita); integrazione, per generare effetti indiretti su tutte le dimensioni; territorio, perché non è più sostenibile un dibattito che si concentra su singoli aspetti della vita sociale. Le idee di Stefano Monti, partner di Monti & Taft
Bisogna accogliere con grande favore il fatto che nel nostro Paese si stia affermando, giorno dopo giorno, un grande dibattito legato al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Condizione che, è bene ribadirlo, è molto più che desiderabile, è necessaria.
Necessaria sia per fare in modo che i cittadini abbiano una visione completa dell’insieme di strategie e di riforme che sono contenute nel Piano, sia per incrementare il livello qualitativo di un dibattito pubblico che negli ultimi anni ha perso un po’ di attenzione nei riguardi della “gestione” della cosa pubblica.
Leggendo le varie notizie, tuttavia, non è possibile contenere una leggera preoccupazione sullo “stile” con cui tale interesse verso il Pnrr viene veicolato.
Uno stile che pare, ancora una volta, preferire il linguaggio della “comunicazione” a quello della “divulgazione”, atteggiamento che rischia di sminuire l’importanza stessa del dibattito, trasformandolo in un rosario di cifre in cui ognuno trova le risposte che cerca.
Molto diffusa è, in questi giorni, una comunicazione che, a suo dire, tende a comparare le strategie di crescita e di investimento dei principali Paesi europei per individuare similitudini e differenze. Intento che, tuttavia, a dispetto della complessità del tema, pare tradursi in operazioni aritmetiche piuttosto elementari: sottrazioni e addizioni.
Bene. Per quanto un bel grafico, colorato e accattivante, sia sempre un toccasana per articoli che affrontano l’economia, sarebbe tuttavia opportuno ricordare che questa non è una “gara” a chi ha investito di più in questo o quel settore.
Non si tratta soltanto di “metodo”, il problema è il “messaggio” che da tale metodo deriva. Un messaggio che abbiamo già visto reiterarsi anno dopo anno nell’ultimo ventennio con i “fondi europei” e che ha influenzato, in modo anche considerevole, le metriche di valutazione delle Amministrazioni Pubbliche negli ultimi anni.
Sono due, dunque, le precisazioni che sarebbe opportuno ribadire con grande perseveranza: la prima è che non vince chi spende di più ma vince chi investe meglio. La seconda è che il “territorio” non è un insieme eterogeneo di “specializzazioni”, ma un ecosistema complesso.
Partiamo dalla prima, che è la più semplice. Per i mondiali di Calcio Italia ’90, l’Italia stanziò e spese molte risorse ricorrendo ad un indebitamento che abbiamo finito di pagare soltanto nel 2015, con il saldo dell’ultima rata pari a 61,2 milioni di euro.
Ecco. Per quel mondiale abbiamo speso cifre astronomiche, ma da queste risorse non sono nate grandi opportunità di crescita e sviluppo per il nostro Paese.
Non paghi dell’evidenza, abbiamo continuato a credere nel mantra del “vince chi più spende”. Così, il nostro Paese ha nel tempo costruito istituti penitenziari, ospedali, e altri edifici a funzione pubblica, senza che questi venissero mai attivati. Talvolta per mala gestio politica. Talvolta per mancanza di “fondi”. Quest’ultimo punto, poi, è stato un fil rouge che ha accomunato anche molti altri “progetti europei”, nell’elaborazione dei quali, presi dalla febbre dello “spendere”, non abbiamo tenuto conto che “una volta finiti” gli edifici e i servizi per cui tali edifici venivano costruiti, richiedevano ulteriori fondi per essere aperti e mantenuti nel tempo.
Passiamo invece all’insidia più sottile e complicata, vale a dire la concezione del territorio come un insieme “multisettoriale” di comparti a tenuta stagna. Visione che, da un lato, è il riflesso di un atteggiamento culturale che dall’ottocento in poi ha guidato il nostro modo di pensare alle cose (Musei naturalistici che classificano, iperspecializzazioni professionali, ecc.), e che dall’altro, l’Italia stenta a superare perché è il riflesso di quella logica egoistica e autoescludente che, dai Comuni al familismo amorale, ci ha accompagnato durante i secoli.
È questa visione che consente di guardare con “orgoglio” e affermare che l’Italia spende più della Francia in cultura e turismo senza tuttavia chiedersi, davvero, cosa questo tipo di affermazione significhi nel concreto.
Non c’è bisogno di essere politologi per capirlo: essendo il nostro un mondo collegato, ogni azione che viene attuata all’interno di uno specifico settore genera delle conseguenze anche negli altri aspetti della vita civile. Queste conseguenze possono essere sia positive che negative. Quindi, quando si pianifica una strategia economica, non può e non deve sussistere il “prima la cultura”, o “prima l’industria” o “prima la scuola”, perché un sistema scolastico in grado di produrre professionisti estremamente formati e competenti può essere nocivo, in termini aggregati, se non ci sono politiche industriali adeguate. Se “produciamo” più medici di quanti ne occorrano, è chiaro che molti di essi andranno all’estero. Se poi non includiamo meccanismi atti a garantire “il merito”, c’è anche il rischio che quelli che andranno via siano anche più bravi di quelli che restano.
Ciò che, a ben vedere, risulta poco comprensibile, è che uno dei settori che maggiormente si fa portavoce di questo tipo di approccio sia il settore culturale. E qui si arriva, a dir poco, ad una contraddizione in termini.
Anche questo punto non è difficile da spiegare. Dal punto di vista dello sviluppo del territorio, inteso anche nella sua dimensione prettamente economica, la cultura ha effetti sia diretti, che indiretti. E gli effetti “indiretti”, spesso, superano per importanza quelli diretti. Facciamo un esempio: la presenza di un museo “famoso”, su un territorio, genera sullo stesso degli effetti economici che vanno ben oltre i “ricavi” dei biglietti venduti.
Ora, la cosa interessante è che se fin qui sono tutti d’accordo, perché questa affermazione avalla l’importanza della cultura, lo sono meno quando si afferma che non importa se l’investimento in cultura sia più o meno di quello della Francia, purché la strategia sia funzionale allo sviluppo del territorio nel suo insieme.
Ben venga avvicinare, dunque, le persone al PNRR, ma ridurre il tutto ad una sottrazione e ad un’addizione per vedere chi ha speso di più o a chi ha speso di meno rischia di creare più malintesi che comprensioni.
È tempo di guardare al nostro Paese con una prospettiva di sviluppo integrata. Se non facciamo questo, spenderemo tantissimi soldi. È vero. E aspetteremo di lamentarci quando parte di questi andranno restituiti.
Senza nemmeno aver capito il perché.