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Tassa di successione, contro la famiglia e l’economia nazionale. Scrive Pedrizzi

L’eventuale reintroduzione di tale imposta andrebbe a discapito della famiglia, intesa come corpo intermedio e come strumento di trasmissione non solo di valori e modelli di comportamento, ma anche di patrimoni e risorse economiche. Il commento di Riccardo Pedrizzi

Cambia la leadership del Partito Democratico, già Partito della sinistra, ex Partito comunista italiano, ma la musica non cambia: aggravare, cioè, di tasse il popolo, colpire il ceto medio, come quando si volle tassare il settore della nautica, facendo fuggire in Francia, Spagna e Croazia molti proprietari di imbarcazioni.

Enrico Letta, nuovo segretario d’emergenza, richiamato da Parigi, ha lanciato una proposta, che non sta né in cielo né in terra, come vedremo punto per punto e che riportiamo testualmente da una sua intervista pubblicata su Corriere Sette: “Il mio sogno è trattenere i ragazzi italiani in Italia, senza però farli restare in casa con mamma e papà fino a trent’anni. Il problema principale del nostro Paese è che non fa più figli. Ci vuole una dote per i giovani, finanziata con una parte dei proventi della tassa di successione, e un accesso ai mutui-abitazione anche per chi non ha genitori in grado di fornire garanzie”. Questa vera e propria “boutade” ha incassato subito lo stop del presidente del Consiglio, Mario Draghi, che ha dichiarato: “Non abbiamo mai parlato, ma non è il momento di prendere soldi dai cittadini, ma di darli”.

In pratica Letta, che vuole lanciare temi identitari cari alla sinistra, come lo “jus soli”, per dare la cittadinanza a migliaia di figli di immigrati, o come la proposta di legge Zan, propone di intervenire sulle donazioni e sulle eredità superiori ai 5 milioni di euro, recuperando 2,8 miliardi che sarebbero distribuiti, con quote da 10 mila euro ciascuna, alla metà dei diciottenni italiani, sulla base del reddito (Isee). Questa tassa arriverebbe all’aliquota del 20 per cento.

In pratica si tratta della solita logica assistenzialistica, statalistica dei cosiddetti “bonus”, che non risolve nessuno dei problemi a cui fa riferimento il leader del Pd.

Perché: a) non trattiene in Italia i ragazzi che vanno all’estero per il mancato accesso o dell’abbandono dell’istruzione universitaria dei giovani provenienti da famiglie con redditi bassi. Occorrerebbe invece prendere in esame “vere forme di esonero dalle tasse universitarie e di prestito o, come suggerisce la Corte dei Conti, aiuti economici per gli studenti universitari meno abbienti”. Il problema infatti è dovuto “oltre che a fattori culturali e sociali, al fatto che la spesa per gli studi terziari, caratterizzata da tasse di iscrizione più elevate rispetto a molti altri Paesi europei, grava quasi per intero sulle famiglie; b) non incentiva la nascita di cittadini italiani per la quale occorrerebbero politiche per la famiglia, che, ad esempio, agevolino il lavoro delle donne, istituiscano asili nidi in tutte la penisola, che in maniera strutturale sostengano la nascita del secondo e del terzo figlio ed aiutino le famiglie numerose; c) non aiuta le coppie a costruirsi una famiglia ed ad acquistare una prima casa se non si elimina il fenomeno del precariato.

Per tutte queste ragioni il nostro premier, condividendo le analisi di Francoforte sul proseguimento di una politica espansiva, che per essere tale non può prevedere aumenti della tassazione, ha bocciato senza appello la proposta fatta da Enrico Letta di reintrodurre una tassa di successione sui grandi patrimoni, ricordando anche le misure a sostegno dei giovani contenute nel decreto approvato (la casa, i contratti di inserimento, l’intervento per partite Iva e turismo) e soprattutto il Pnrr “in cui i giovani sono ovunque per la clausola di condizionalità”. Su questa posizione negativa è sostenuto anche dal titolare del Mef, Daniele Franco, che in un question time al Parlamento ha ribadito come il governo non sia “entrato nel merito di singole misure” e parlando della delega fiscale, il ministro ha risposto: “La delega verterà sul sistema nel suo complesso: è bene non intervenire sulle singole misure”.

Del resto già tanti anni fa, il prof. Raffaello Lupi, ordinario di Diritto tributario all’Università di Tor Vergata e già rettore della Scuola Centrale Tributaria “Ezio Vanoni” di Roma, scrisse in un suo pregevole libro del 1996 (Le illusioni fiscali, ed. il Mulino) in merito all’imposta di registro, all’imposta sulle successioni e ai tributi connessi: “Si tratta di una fiscalità anacronistica, adatta ai tempi in cui l’economia era agricolo-pastorale, basata soprattutto sulla ricchezza fondiaria, mentre oggi queste imposte sopravvivono a se stesse e riguardano settori, come quello immobiliare e dei conferimenti in società, già pesantemente tassati sotto altri profili, come l’Ici (oggi Imu)”. Più avanti: “Su questa diagnosi tutti concordano da anni, eppure non si fa un passo avanti. Appena si parla di abolire o di modernizzare l’imposta di registro o quella sulle successioni, gli apparati emettono una cortina fumogena di ‘se’, di ‘ma’, di ‘forse’ e di ‘vedremo’, con ostruzionismi tanto più deprimenti quanto più espressi in buona fede. La paralisi blocca la normale attività di ricambio delle imposte e il loro adeguamento ai mutamenti dell’economia. L’anacronismo di tale tributo è di tutta evidenza e non giustifica una reintroduzione di questo autentico ‘pezzo da museo’”.

A suo tempo la tesi dell’abrogazione dell’imposta di successione aveva trovato concorde, del resto, in un primo momento, lo stesso ex sottosegretario alle finanze, prof. Marongiu, successivamente divenuto sostenitore del mantenimento del tributo. Per non parlare dell’ex ministro Visco che l’11 aprile 1997, di fronte ad una platea di commercialisti, a Bologna, aveva affermato: “Quando devo pagare il bollo della patente mi innervosisco: il bollo, come l’imposta di successione, è una tassa da Paese dell’Ottocento, che va superata, compatibilmente con il mantenimento del gettito”. Ma ora pare abbia cambiato idea.

Da parte sua, il centrodestra aveva sempre affermato la necessità di un superamento dell’imposta di successione. Infatti l’ipotesi di abolizione era già contenuta nel Libro bianco del ministro Tremonti del 1994 e venne confermata con la presentazione del progetto di legge Atto Camera n.6062 di Berlusconi ed altri parlamentari.
Non fu quindi, un’iniziativa di tipo elettoralistico, ma una coerente azione di riforma perseguita nel tempo e, semmai, l’adempimento di un impegno preso solennemente con gli elettori.

Sul piano culturale l’imposta sulle successioni tradisce quella radicata diffidenza di una parte della cultura di questo Paese (quella collettivista e marxista) contro l’istituto della proprietà privata e l’autonomia negoziale e contro la famiglia naturale. Il prelievo viene normalmente giustificato con la circostanza che si tratta di attribuzioni patrimoniali non “meritate” e si fonda su una concezione della famiglia atomistica e circoscritta nel tempo e nello spazio, propria della cultura illuministica e rivoluzionaria che dovrebbe essere definitivamente ma che continua ad allignare in ricchi miliardari radical chic, come Riccardo Illy, che considera il patrimonio ereditato “un dono non meritato” e “profondamente diseducativo”.

Tale pregiudizio è in realtà infondato ed irrilevante, poiché l’acquisto per via ereditaria è, invece e tra l’altro, pienamente giustificato dal risparmio accumulato in vita dal testatore e dall’atto di destinazione compiuto dal medesimo (anche nella forma del silenzio nel caso di successione non testamentaria), che di solito è il padre. E non a caso la tassa di successione non vigeva negli Stati e nei regimi che, comunque li si giudichi per tutti gli altri aspetti, e nel bene e nel male, tutelavano la famiglia e ad essa prestavano attenzione e risorse: il Regno delle Due Sicilie ed il Fascismo. E, tale tassazione, come ricorda Stefano Passigli, “fu reintrodotta dalla Repubblica con alterne vicende”.
Inoltre, l’imposta sulle successioni, rappresentando un’ipotesi specifica di imposta sul patrimonio, costituisce un forte disincentivo al risparmio, poiché garantisce un migliore trattamento fiscale per coloro che consumano, se non addirittura dissipano, interamente il proprio reddito.

Su questo tema pagine illuminanti e profetiche si possono leggere nella enciclica Rerum Novarum di Leone XIII: la proprietà cioè deve essere considerata come la continuazione stessa del lavoro e come il suo prodotto naturale. Oltretutto “Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore: anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti, ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natìo; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso ed armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia e inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte”. (Riccardo Pedrizzi e Giovanni Scanagatta,”Una luce sul mondo. Dalla “Rerum Novarum” alla “Caritas in veritate”, Editrice Pantheon).

In via generale, infatti, le imposte patrimoniali indeboliscono il sistema economico nel suo complesso perché ne riducono la capitalizzazione e quindi la capacità di crescita e di sviluppo tecnologico. Ciò è tanto più vero nel caso delle imposte di natura straordinaria, qual è quella sulle successioni, che per loro natura non possono essere assunte all’interno degli ordinari piani di gestione dei titolari dei beni.

Occorre poi osservare che, soprattutto nei casi dei grandi patrimoni, attualmente si ricorre spesso a forme di trasferimento intergenerezionale fiscalmente meno onerose. Tale fenomeno accentua l’ingiustizia complessiva dell’imposta di successione, che finisce per colpire i patrimoni di dimensioni medio-piccole, costituiti da cespiti di natura prevalentemente immobiliare, i quali più difficilmente possono sottrarsi al prelievo. E poiché il tessuto economico del nostro Paese è costituito prevalentemente di piccole e medie aziende, di fatto questo balzello se reintrodotto andrebbe a colpire l’intero apparato produttivo nazionale.

In un suo intervento sulla fiscalità delle piccole e medie imprese, Victor Uckmar, quando si accese il dibattito prima sulla sua abolizione, infatti, ebbe modo di rilevare: “I titolari delle piccole e medie imprese, con tante difficoltà per il passaggio generazionale, hanno l’incubo della imposta di successione, che inevitabilmente viene assolta con mezzi dell’azienda o comunque sottraendo ricchezze che potrebbero essere meglio destinate all’investimento. Da tempo si parla di abolizione dell’imposta di successione, ma anche per ragioni demagogiche passeranno altri tempi. (Uckmar allora non sapeva che sarebbe andata al governo una coalizione di centrodestra!). Eppure – continuava l’insigne giurista – è una imposta regressiva, che viene assolta dai… poveri, e cioè da coloro che non hanno avuto la capacità o la possibilità di operare i trasferimenti in vita senza oneri fiscali o comunque di gran lunga inferiori alla imposta di successione”.

Oltretutto nel mondo globale, in cui i grandi patrimoni sono al sicuro nei paradisi fiscali, reintrodurre la tassa di successione sarebbe l’ennesima ingiustizia ai danni del ceto medio. Ed il ceto medio – scrive Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera – ormai costituisce il nerbo dell’elettorato del Partito democratico, il quale dovrebbe difenderlo con le unghie e con i denti; e invece lo vuole tassare. Ma tassassero Amazon, non solo il commerciante”. Ed aggiunge in un’altra puntata della sua rubrica sempre sul Corriere della Sera. Mi piace conversare con i tassisti, una delle ultime categorie che vive ancora in mezzo alla gente. Tutti quelli con cui ho parlato erano avvelenati. Non credo avessero un patrimonio da un milione o da cinque milioni di euro. Di sicuro non rientrano tra i grandi patrimoni; che peraltro sono quasi tutti al sicuro nei paradisi fiscali. So che erano ferocemente contrari alla tassa. Nessuno di loro si sentiva ricco. Hai visto mai però che, sommando la licenza, la casa, il garage della nonna, il conto corrente, i risparmi, si arrivi a una quota che a Letta e a Orfini possa apparire sospetta… Capisco che la sinistra abbia perso i voti delle classi popolari, e debba recuperarli. Ma non lo farà con nuove tasse. Neppure con tasse i cui proventi dovrebbero aiutare le classi popolari”.

Dalle considerazioni sopra esposte, è possibile quindi concludere che l’esenzione dell’imposta di successione, risponde a criteri di equità, di funzionalità ed efficienza del sistema tributario e si fonda su una riflessione che parte da lontano e che trovò concorde un’ampia platea di esperti, operatori economici ed esponenti politici, anche tra quelli che oggi sembrano soffrire di qualche amnesia.

Ma, soprattutto, l’eventuale reintroduzione di questa imposta si muoverebbe nell’ambito di una strategia di attacco alla famiglia, intesa come corpo intermedio e come strumento di trasmissione non solo di valori e modelli di comportamento, ma anche di patrimoni e risorse economiche.

NOTA 1) L’imposta sulle successioni e donazioni è dovuta per il trasferimento della proprietà o di altri diritti mortis causa o a titolo di liberalità. In particolare: nel caso della successione, il trasferimento avviene in seguito alla morte del titolare (de cuius), in base alla legge (successione legittima) o a un testamento (successione testamentaria); nel caso della donazione, per l’accordo con cui il titolare (donante) dispone di un suo diritto a vantaggio di altri. Sono oggetto di successione o donazione: i beni immobili; le obbligazioni, i crediti, il denaro, le azioni e le quote di partecipazione al capitale di società. L’imposta di successione fu abolita nel 2001 dal governo Berlusconi II, fu ripristinata nel 2006 dal governo Prodi II. Attualmente quindi vi è una franchigia pari a 1 milione di euro moltiplicato il numero dei beneficiari; per il coniuge ed i parenti in linea retta (figli), pari a 100 mila euro moltiplicato il numero dei beneficiari per i fratelli e le sorelle. In pratica con le varie proposte in discussione si vorrebbero eliminare le franchigie e tassare tutti i patrimoni trasferiti al di sopra dei cinque milioni di euro al 20%.

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