Per trent’anni Hong Kong è stato l’unico luogo all’interno della Repubblica popolare cinese dove ogni anno si commemorava la strage di Tiananmen. Chissà quanto quel ricordo ha contribuito alla resistenza dei giovani attivisti di Hong Kong, oggi tutti rinchiusi nelle galere o costretti all’esilio
Tienanmen 6.489, Hong Kong 6.421: la prova inconfutabile di un regime repressivo che contrariamente all’immagine che è intento a proiettare nel mondo, non ha cambiato neanche pelle.
Per trent’anni Hong Kong fu l’unico luogo all’interno della Repubblica popolare dove ogni anno si commemorava la strage di Tienanmen con raduni e veglie con candele, lasciando alle nuove generazioni non solo la memoria delle vittime ancora sconosciute, ma anche un monito vivo per quanto sarebbe potuto accadere se un giorno le politiche di Pechino avrebbero fatto breccia nel sistema Un Paese, due sistemi.
Chissà quanto quel ricordo annuale “per futura memoria” abbia contribuito alla resistenza dei giovani attivisti di Hong Kong in questi ultimi anni, oggi tutti rinchiusi nelle galere o costretti all’esilio. Fatto sta che nel 32° anniversario della strage, oggi il monito vivo di Hong Kong si è fisicamente verificato: 7.000 agenti armati in strada per assicurare che nessuno possa anche solo minimamente accennare alla commemorazione – nonostante i metodi creativi suggeriti degli attivisti -, almeno un arresto già verificatosi presto questa mattina di una delle poche attiviste ancora a piede libero – Chow Hang Tung, vicepresidente dell’associazione che organizzava le veglie annuali, la quale con ironia della sorte è stata portata via della polizia in una macchina con targa finendo in “64” –, l’emittente pubblica Rthk che per la prima volta non riporterà sui fatti storici e il museo dedicato alla memoria chiuso qualche giorno fa.
Emblema di un Hong Kong ora pienamente nelle grinfie del regime di censura e oppressione che il mondo denunciò con forza nel 1989. Sui social circolano gli appelli incessanti degli hongkonghesi al mondo di raccogliere il testimone ora che a loro è vietato e la città cade nel buio della censura. Tra loro Nathan Law, compagno attivista di Joshua Wong ed ex deputato ora in esilio forzato nel Regno Unito proprio come fu il caso per tanti dei sopravvissuti della strage dell’89, si è appellato alla comunità internazionale: “Spero che tutti possano trapassare alle futuri generazioni la storia e la verità del massacro del 4 giugno e il movimento democratico del 1989”.
E anche qui non si tratta soltanto di un fatto di commemorazione, ma di monito vivo, perché le grinfie del regime si stanno inconfutabilmente allungando nel mondo rimasto libero. Esattamente come la strage di Tienanmen aveva avvertito il popolo di Hong Kong di quanto sarebbe accaduto, la lunga notte di censura e repressione calata su Hong Kong ci avverte di quanto accadrà anche da noi se non riusciamo a cogliere i segnali evidenti.
Proprio nei giorni scorsi, due siti costruiti e mantenuti in Occidente di esiliati hongkonghesi, dediti in questo periodo a ricordare la strage di Tienanmen sono stati chiusi dai loro provider. È stato lo stesso Nathan Law a denunciare come la compagnia israeliana Wix aveva ceduto al reclamo della polizia di Hong Kong per chiudere il sito 2021 Hong Kong Charter in linea con i provvedimenti extraterritoriali della Legge nazionale sulla sicurezza illegalmente imposta meno di un anno fa da Pechino. Che si trattasse di una applicazione esclusivamente mirata all’estero è evidente dal momento che il sito di Wix stesso dichiara che la loro piattaforma non è accessibile né in Cina né a Hong Kong. Sebbene abbia ristorato il sito grazie alla forza delle denunce mediatiche di Law, il messaggio e l’intento di Pechino è chiaro: la libertà di espressione in Occidente finisce dove vuole il Partito comunista cinese.
Fa il paio con le sanzioni individuali imposte su parlamentari, ricercatori ed attivisti all’estero, con le minacce a giornalisti indipendenti o il rifiuto dei loro visti – ed è importante ricordare che una delle prime vittime di questo trattamento fu proprio un giornalista italiano, il corrispondente di Radio Radicale Francesco Radicioni –, con le (minacce di) richieste di estradizione per crimini d’opinione travestiti da accuse di corruzione o frode, e gli attacchi incessanti ai Parlamenti liberi di indagare, ascoltare ed esprimersi senza vincoli sulle incessanti violazioni dei diritti umani e dello stato di diritto in Cina.
Sono passati neanche due anni da quando Joshua Wong ammoniva il Parlamento italiano circa i rischi che correva il mondo intero – “Oggi Hong Kong, domani voi” – o il monito si sta già avverando in modo accelerato con minacce e censure da un lato – il bastone dei lupi guerrieri diplomatici –, ed i stimoli e vantaggi – le carote – per chi “racconta bene la Cina”.
Una tendenza che Xi Jinping – a seguito di una sessione di studio del politburo del Partito – vuole rafforzare, come annunciato ad inizio di questa settimana. Le somme già ingenti per la propaganda esterna, come abbiamo denunciato più volte su queste pagine, verranno aumentati ancora con lo scopo di “rafforzare l’interpretazione del Partito comunista cinese, di aiutare gli stranieri a realizzare che il Partito comunista cinese si sforza davvero per la felicità del popolo cinese, di capire perché il marxismo va praticato, e perché il socialismo con caratteristiche cinesi è buono”, con l’obiettivo centrale di anteporre la presunta supremazia del sistema del Partito comunista al modello “scadente e datato” della libertà occidentale, come ribadito più volte dell’ideologo confermato per la exoprop (propaganda esterna) il professore Zhang Weiwei.
Infatti, la notizia data da Xinhua sulla sessione di studio collettiva parla chiara: la caratterizzazione della sfida in atto come una “lotta di opinione pubblica” (舆论斗争), termine che ricorda l’epoca di Mao Zedong; il linguaggio persistentemente stonato sull’educare gli stranieri sulla bontà del Partito comunista cinese; e il discorso di mobilitazione, finanziamento e formazione e, soprattutto, valutazione ideologica dei leader locali sul loro contributo in termini di lavoro di comunicazione internazionale. O ancora, sulla questione dell’allargamento del “cerchio degli amici”, come non notare che nella riga successiva viene reiterata la “lotta dell’opinione pubblica”?
In una tale lotta, ci sono amici sotto forma di media compiacenti e apologeti – ed ecco che la rinnovata apologia da parte di Beppe Grillo non dovrebbe sorprendere nessuno, come non lo dovrebbero fare i servizi culturali di Giovanna Botteri –, e ci sono nemici sotto forma di giornalisti recalcitranti, accademici e politici che insistono sulla critica – esattamente ciò che questa rafforzata spinta esterna è progettata a neutralizzare.
Una spinta fin troppo e in modo inquietante simile a quanto accaduto a Hong Kong dopo la rivoluzione degli ombrelli anni fa. Faremo in tempo ad accorgercene e, soprattutto, a reagire a questa sfida per futura memoria o fra trent’anni dovremo aggiungere una ulteriore triste data all’incipit?