Il significato di queste elezioni e la sicura vittoria di Raisi non dovrebbero essere sottovalutate dai leader occidentali che cercano di rinegoziare il Jcpoa. Il commento dell’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri
Proprio in queste ore, il regime iraniano degli ayatollah sta tenendo – per la tredicesima volta dal 1979 – la solita “farsa” delle elezioni presidenziali. Generalmente, finora, si è trattato di una occasione per il popolo iraniano di far emergere il proprio umore, ma quelle in corso raggiungono il livello massimo del grottesco e allo stesso tempo del drammatico.
Giova sempre tenere bene a mente che la “Repubblica” islamica dell’Iran è prima di tutto una teocrazia e i mullah al potere hanno da sempre il controllo assoluto sui limitati processi democratici del Paese. In particolare, quest’anno il numero dei candidati idonei alla corsa a presidente è il più ristretto di quanto non sia mai stato nei 42 anni del regime. Infatti, lo scorso 24 maggio il Consiglio dei Guardiani ha escluso tutti i candidati cosiddetti riformisti, o centristi, lasciando il campo a soli sette candidati della “linea dura” o comunque senza alcuna chance di vittoria.
Una “selezione” chiaramente orchestrata con il solo obiettivo di assicurare la vittoria al prescelto dell’ayatollah Ali Khamenei per la presidenza, l’attuale capo della giustizia iraniana, Ebrahim Raisi. Si tratta di una personalità accusata di innumerevoli crimini contro l’umanità e i diritti umani commessi in più di trent’anni di ruoli ricoperti ai vertici del regime iraniano. Dal novembre 2019 Raisi è iscritto nella blacklist del Tesoro statunitense, proprio in ragione deile gravissime e ripetute violazioni dei Diritti Umani.
Ad ancor meglio delineare il “curriculum” di Raisi è certamente doveroso sottolineare, oltre alle posizioni da lui espresse sulla questione nucleare, su Israele e sugli obiettivi iraniani in Medio Oriente, il ruolo chiave da lui avuto, e di cui si è ripetutamente e pubblicamente vantato, nel massacro di oltre 30.000 prigionieri politici nell’estate del 1988.
Un orrendo crimine per il quale non si è ancora fatta giustizia. Le Nazioni Unite continuano a premere sul regime per avere risposta. Ben sette Relatori speciali dell’Onu – sulle esecuzioni sommarie, arbitrarie o extragiudiziali; sui diritti alla libertà di riunione e associazione pacifica; sulla situazione dei diritti umani nella Repubblica islamica dell’Iran; sulla protezione e la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel contrasto al terrorismo; sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti; il gruppo di lavoro sulle sparizioni forzate o involontarie – hanno formalmente chiesto un’indagine internazionale sul massacro del 1988, senza mai ottenere dal regime iraniano alcun riscontro.
La corsia preferenziale ottenuta da Raisi verso la presidenza è un segno evidente del volere della Guida suprema di far eleggere un nuovo presidente disposto a compiere le più efferate e sanguinose repressioni per eliminare qualsiasi forma di opposizione o dissidenza. La teocrazia iraniana è sempre più instabile. Dal 2018 vi sono state tre ondate di protesta generalizzate e diffuse in tutto il Paese, con centinaia di manifestazioni a livello nazionale. L’economia è crollata. Più del 75% della popolazione si trova al di sotto della soglia di povertà. La gente fruga abitualmente nella spazzatura per trovare avanzi di cibo.
La vasta maggioranza iraniani manifesta da tempo, nonostante la violenza della repressione, un’ormai totale intolleranza verso il regime al potere. Non è più disposta ad accettare la dilagante corruzione, la totale incompetenza e disinformazione nella lotta alla pandemia, l’immane sperpero di ricchezza in insensate avventure militari e attività terroristiche, gli ingenti finanziamenti ai proxy del regime in Siria, Iraq, Yemen, Libano, a Gaza, l’isolamento che tutto ciò ha comportato, trasformando l’Iran in un paria internazionale. Le faide tra l’élite di governo, con i mullah che lottano anche tra loro pur di restare aggrappati al potere, espongono le fratture all’interno del sistema, mentre si sta rafforzando un movimento di opposizione sempre meglio organizzato e radicato nel Paese.
Vi sono stati appelli quotidiani per il più ampio boicottaggio della messa in scena elettorale. Fonti autorevoli prevedono che si registrerà il più basso livello di partecipazione nella storia del regime.
Il significato di queste ennesime “elezioni truffa” in Iran, e la sicura vittoria di Raisi, sono questioni che non dovrebbero essere sottovalutate dai leader occidentali che cercano di rinegoziare il Jcpoa. L’accordo nucleare del 2015 non ha certo impedito – neppur marginalmente – di soffocare nel sangue ogni possibile dissidenza interna, né di frenare l’aggressività militare di Teheran in tutta la regione, né di limitarne le strategie di destabilizzazione regionale e globale, così come di continuare a essere il principale sponsor mondiale del terrorismo. Tantomeno ne ha sopito le aspirazioni di disporre di armamenti nucleari e di un programma missilistico (in palese violazione della Risoluzione 2331 del Consiglio di sicurezza dell’Onu) e nucleare (nonostante i divieti dell’Aiea) portando al 60% l’arricchimento dell’uranio: una soglia vicinissima alla realizzazione dell’arma nucleare.
I governi europei non dovrebbero dimenticare le gravissime sofferenze inflitte al popolo iraniano quando accettano di incontrare esponenti di un regime che impicca e tortura oppositori politici, donne incinte, minorenni e persino bambini, che nega qualsiasi libertà di espressione, di religione, o di orientamento e preferenza sessuale, per citarne solo alcuni.