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Tre casi in cui l’acqua sta scatenando crisi in Medio Oriente

L’interruzione dell’approvvigionamento idrico è stata a lungo un potenziale catalizzatore di conflitti o instabilità in Medio Oriente, una regione tendenzialmente arida, ma mai come ora le tensioni sono concrete, i rischi palpabili, dall’Iran a Israele

Ci sono tre vicende recenti che raccontano come le questioni legate alla disponibilità idrica che possono guidare questioni geopolitiche di diverso genere. Dalla gestione delle collettività e delle minoranze, come succede con i manifestanti assetati del Khuzestan, che chiedono al governo di Teheran di tutelarli e di soddisfare le richieste di chi vive nella regione più calda della Repubblica islamica; alle minacce militari che si snodano attorno al procedere del riempimento della Gerd, la diga etiope su cui Egitto e altri paesi manifestano preoccupazioni esistenziali davanti alle quali non escludono l’uso della forza; passando per le nuove aperture tra Giordania e Israele legate al rientro da parte di questi ultimi in accordi per la fornitura idrica verso Amman.

L’acqua è un bene fondamentale, la cui disponibilità sta calando. Dinamica che si lega all’antropizzazione di certi territori, dove le colture industrializzate tanto quanto le evoluzioni delle condizioni di vita hanno prodotto un aumento di consumi. Aumento che molto spesso si lega alla diminuzione delle riserve a disposizione. Lo sfruttamento cresce ma la ricarica non procede allo stesso in modo corrispondente: complice il surriscaldamento globale, le falde, già depauperate dai pompaggi più spinti, non si riempiono in proporzione alla velocità della richiesta, le piogge sono sempre meno abbondanti e sopratutto meno costanti, l’aumento delle temperature produce una più veloce evapo-traspirazione dalle superfici.

In Egitto, la disponibilità idrica dal 1960 a oggi si è ridotta dai 2190 metri cubi a persona all’anno a circa 500 – vale la pena ricordare che le condizioni con meno di mille metri cubi di acqua per persona sono considerate dalle Nazioni Unite come “scarsità d’acqua relativa”, sotto ai 500 “scarsità d’acqua assoluta”. Lo sbarramento prodotto dalla Gerd (acronimo di Grand Ethiopian Renaissance Dam), il cui secondo livello di riempimento è stato ultimato il 19 luglio, creerà un lago artificiale da 1874 chilometri quadrati contenente 74 kilometri cubi di acqua. A pieno regime sarà la più grande centrale idroelettrica dell’Africa (la settima più grande del mondo): permetterà di portare energia e sviluppo ad Addis Abeba, e di trasformarla in un hub energetico (esportando corrente nella regione). Duemila cinquecento chilometri più a valle, il Cairo teme che l’aliquota idrica che riceverà sarà ridotta, producendo un peggioramento della già critica situazione.

In Khuzestan in questi giorni ci sono state proteste contro il governo iraniano dovute alla scarsità di acqua potabile. Sebbene la causa principale dei problemi idrici nella provincia sudoccidentale della Repubblica islamica sono i livelli bassi delle falde dovuti alla siccità, anche la cattiva gestione delle risorse idriche potrebbe aver giocato un ruolo. In questo il peso ricade sui Pasdaran, che hanno avuto in mano diversi progetti nell’area e che vengono accusati dai manifestanti di corruzione e di non tutelare l’interesse degli iraniani. La mancanza d’acqua riguarda anche altre aree del paese e diventa un moltiplicatore di una condizione sociale interna molto tesa. In Iran c’è un’aliquota di popolazione che non si riconosce più nelle attività condotte dalla Guida suprema e dai suoi prolungamenti, non accetta le predicazioni propagandistiche, non è interessata alle proiezioni strategiche, ma chiede alla leadership di Teheran di affrontare la realtà con pragmatismo, accettare compromessi e pensare alla prosperità dei suoi cittadini.

In Israele, il nuovo primo ministro, Naftali Bennett, ha dato priorità a un ripristino dei legami con la Giordania: e in cima all’agenda del reset c’era l’acqua. Il governo israeliano s’è detto disposto a migliorare ulteriormente l’approvvigionamento idrico, che è cruciale per la stabilità della monarchia hashemita, fornendo 50 milioni di metri cubi di acqua prodotta in un impianto di desalinizzazione a nord, da cui l’acqua defluisce nel Mar di Galilea e da lì in Giordania. In ballo c’è però qualcosa di più: un progetto siglato il 9 dicembre 2013, nella sede della Banca Mondiale di Washington, tra Israele, Giordania e Autorità palestinesi per avviare un piano per rivitalizzare i livelli idrici del Mar Morto. Il nome è “Two Seas Canal” (conosciuta già come “Red-Dead Conduit”), prevede la costruzione di una pipeline attraverso la quale viaggeranno 100 milioni di metri cubi d’acqua che annualmente saranno pompati dal Mar Rosso e spostati verso il Morto e poi distribuiti tra territori palestinesi e Giordania.

Il governo Netanyahu aveva sostanzialmente sospeso il Red-Dead, ma ora nella necessità sempre più forte di creare vettori di stabilizzazione regionale Bennett intende rivitalizzare i flussi geopolitici. L’interruzione del supply idrico è stata a lungo un potenziale catalizzatore di conflitti o instabilità in Medio Oriente, una regione tendenzialmente arida e in progressivo inaridimento. Tuttavia non è mai stato un rischio così importante come lo è ora, con il concretizzarsi di crisi connesse all’acqua e meccanismi di dialogo dal più ampio significato che si muovono lungo le forniture idriche.


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