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Afghanistan, perché il ritiro occidentale (non) è una buona notizia per Cina e Russia

Interessi e necessità. Il ritiro occidentale dall’Afghanistan e il ritorno di forza dei Talebani porta le nazioni regionali ad aumentare il loro livello dì attenzione. Un test anche per Cina e Russia

La fuga dei militari afghani verso il Tagikistan, l’Uzbekistan, il Pakistan fotografa con un immagine quanto complessa sia la situazione. I Talebani sono pesantemente tornati all’offensiva, (rapida, violenta, coordinata, come si vede nelle aree settentrionali), al punto che le Forze armate di Kabul, ancora inadeguate nonostante due decenni di assistenza occidentale, scappano per evitare la morte. Un quadro che parlando della fine di quella che il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, ha definito preoccupante, a cui dedicare la massima attenzione.

Le riunioni mediate da Doha hanno creato i presupposti per la fine dell’intervento chiesto da Washington dopo il 9/11 (con i Talebani che davano rifugio sul suolo afghano alla leadership di al Qaeda). L’accordo sul ritiro americano e Nato, prevede che gli insorti jihadisti non diano più appoggio ai qaedisti. I Talebani hanno accettato, ma non riconoscono l’autorità del governo di Kabul, e perciò continuano a combatterlo. Tecnicamente non violando l’intesa con Washington. Ora l’allargamento della crisi, con la fuga oltre i confini del paese dei militari di Kabul (e potenziali ripercussioni anche migratorie), aggiunge uno strato di complicazione al contesto.

Se come dice Guerini ora la “comunità internazionale deve proseguire in Afghanistan sotto altre forme”, ossia “la cooperazione economica, la cooperazione allo sviluppo, le relazioni diplomatiche e politiche in sostegno delle istituzioni”, è vero che questo compito di stabilizzazione diventerà appannaggio delle realtà regionali. E la soluzione, ancora lontana, è vincolata innanzitutto alla ricostruzione del contesto securitario. I tagiki, che vedono la maggior parte del Badakhshan in mano ai Taliban, hanno per esempio stretto accordi con gli insorti: una sostituzione alle forze di frontiera afghana accettata per pragmatismo da Dushanbe.

Combattenti uzbeki e pachistani, poi ceceni e non c’è da escludere che in mezzo ci siano uiguri, aiutano gli insorti jihadisti afghani. Ne condividono ideologia e interessi, sono un’altra fotografia del disastro che la nuova avanzata talebana sta producendo in Asia Centrale. “Certamente il ritiro delle nostre forze ha portato un innalzamento della violenza”, ha sottolineato Guerini chiedendo che l’impegno internazionale ora aumenti di livello. E quell’impegno internazionale deve necessariamente coinvolgere i grandi attori dell’area. Se la Turchia (membro Nato) ha assicurato di volersi prendere carico di aspetti che riguardano la sicurezza di Kabul (da capire come, visto i rumors su uno schieramento di duemila miliziano siriani ordinato da Ankara), un ruolo altrettanto importante spetta a Russia e Cina.

Entrambi attori interessati a sostituirsi alle forze occidentali — un modo per giocare attraverso il dossier afghano influenza nella regione. Per esempio, lunedì (mentre sulla stampa internazionale usciva le notizie sulla fuga dei soldati afghani verso il Tagikistan) il presidente russo, Vladimir Putin, ha avuto una conversazione con l’omologo tagiko, Emomali Rahmon. I due hanno discusso sulla sicurezza nelle aree di confine in cui si trovano i Talebani e dove Dushanbe ha spostato ventimila soldati: “La Russia ha escluso dispiegamenti militari in Afghanistan, ma potrebbe espandere la sua impronta di sicurezza in Asia centrale”, fa notare il ricercatore dell’Università di Oxford, Samuel Ramani.

Lo stesso vale per la Cina. Alla creazione di spazi coincide un necessario aumento di responsabilità. Difficile un dispiegamento militare diretto, ma la creazione di partnership per la sicurezza diventa necessaria. Si tratta di un’occasione per approfondire i legami nella regione centro-asiatica per Pechino e Mosca, ma anche di un investimento per evitare che derive più ampie della crisi afghana si riversino sui reciproci interessi. In questo, dal punto di vista tattico, l’avanzata dei Talebani è un fattore che destabilizzando l’area chiede a russi e cinesi un aumento della concentrazione.

La Cina da tempo guarda all’Afghanistan. L’idea strategica del Partito/Stato è inserire il paese in un allargamento del Corridoio Economico sino-pakistano (CPEC), parte integrante della Via della Seta (Bri) e di cui è sbocco marittimo nell’Indiano attraverso il porto di Gwadar. La questione afghana per la BRI non è cruciale, ma rafforzerebbe la sfera d’influenza cinese, ne aumenterebbe le capacità, darebbe a Pechino spinta narrativa. Inserire il paese nell’infrastruttura geopolitica verrebbe infatti raccontato anche come un risultato positivo in una crisi in cui l’Occidente, dopo vent’anni, si ritrova al punto di partenza; qualcosa da inserire nel grande confronto di modelli con le Democrazie.

Ma come per la Russia — che vede i ceceni combattere con gli afghani jihadisti — anche per la Cina la questione di sicurezza è prioritaria. I musulmani uiguri dello Xinjiang stanno subendo una brutale repressione (negata dal governo cinese) anche perché hanno dato spazio alle istanze jihadiste. E il rischio terroristico interno è inaccettabile per un paese che intende proiettarsi come una potenza a livello globale. Proiezione che in parte passa anche per la BRI, sebbene con meno intensità rispetto alla narrazione. BRI che fisicamente passa per i territori dell’Asia Centrale che la crisi afghana potrebbe mettere in agitazione. Una sommatoria di interessi che sta portando Pechino a cercare contatti con i Talebani tanto quanto con Kabul, con tutti i pro e i contro per la Cina del ritiro occidentale dall’Afghanstan.



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