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Non solo G20, la battaglia dell’Antitrust contro i paradisi fiscali

All’indomani dello storico accordo in seno al G20 sulla tassa globale che porrà fine alle zone franche fiscali, torna utile ricordare quanto detto e scritto dall’Autorità per la concorrenza a proposito dei colpi bassi dei paradisi..

Che i paradisi fiscali dovessero prima o poi arrivare al capolinea se ne erano convinti, da tempo, anche all’Antitrust italiana. Il presidente dell’Autorità di Piazza Verdi, Roberto Rustichelli, è intervenuto spesso e volentieri sulla necessità di porre fine all’esistenza di zone franche. Un discorso che assume ancora più valore nel giorno in cui dal G20 è arrivato il via libera alla minimum tax al 15% sui profitti delle grandi imprese.

“Su questo terreno”, ha scritto l’Antitrust nella relazione annuale 2019, “l’Europa e i governi nazionali possono e devono fare di più: innanzitutto rimuovendo quelle asimmetrie e distorsioni competitive che impediscono ad esso di funzionare correttamente a beneficio di tutti. Occorre, in particolare, prendere consapevolezza che il confronto competitivo si svolge oggi su molteplici livelli, alcuni dei quali sfuggono al diretto controllo delle autorità di concorrenza e, tuttavia, minano il level playing field, che è il presupposto di una competizione equa”.

Secondo Rustichelli, “viene, innanzitutto, in rilievo il fenomeno del dumping fiscale realizzato da alcuni Paesi membri, divenuti oramai veri e propri paradisi fiscali: questo tipo di malsana competizione è frutto di egoismi nazionali e rischia di incrinare i valori che hanno finora sorretto il processo di integrazione europea. La concorrenza fiscale posta in essere da alcuni Stati quali, ad esempio, l’Olanda, l’Irlanda, il Lussemburgo e il Regno Unito è utilizzata, come rilevato dalla stessa Commissione europea, dalle imprese multinazionali per porre in essere forme di pianificazione fiscale aggressiva”.

Il fatto è che “la concorrenza fiscale genera evidenti vantaggi per taluni Paesi: il Lussemburgo, Paese di circa 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del Pil, a fronte del 2% dell’Italia. Anche l’Irlanda (2,7%) fa meglio dell’Italia, nonostante un’aliquota particolarmente bassa, che è, però, in grado di attrarre imprese altamente profittevoli con un margine operativo lordo mediamente pari al 69,4% del valore aggiunto prodotto. Gli investimenti internazionali si adattano alla geografia della concorrenza fiscale: l’Italia attira investimenti esteri diretti pari al 19% del Pil; il Lussemburgo pari a oltre il 5.760%, l’Olanda al 535% e l’Irlanda al 311%”.

Il tutto si traduce in un conto molto salato per quei Paesi vittime dei paradisi fiscali. Nella medesima relazione l’Antitrust spiegava che “uno studio commissionato dal ministero delle Finanze olandese mostra che i soli flussi finanziari (dividendi, interessi e royalties) che attraversano le società di comodo olandesi ammontano a 199 miliardi di euro (il 27% del PIL del Paese). Ma se alcuni Paesi ci guadagnano, è l’Unione europea a perderci, visto che i gruppi multinazionali reagiscono alla concorrenza fiscale localizzando le loro imprese più profittevoli proprio nei Paesi europei con una tassazione più favorevole”.

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