L’economista della Luiss: le due aste di eurobond confermano la fiducia del mercato verso un debito comunitario e condiviso, ma questa è un’operazione one shot. Per rendere il tutto strutturale occorre che gli Stati guardino oltre l’esperienza del Recovery Fund. Il piano Ue e quello Usa? Cifre e logiche diverse
Forse, per dirla con le parole del premier Mario Draghi, questa mattina nel suo intervento all’Accademia dei Lincei, gli eurobond sono una forma di debito buono, sano, propedeutico alla crescita e al benessere. Quello che fino a pochi anni fa sembrava fantascienza, ora è realtà: un debito sovrano ma tutto europeo, in una parola, comunitario. Che il mercato sembra apprezzare molto.
A distanza di appena due settimane dalla prima storica emissione, l’Ue ha raccolto infatti altri 15 miliardi di euro attraverso il collocamento sul mercato di un nuovo eurobond a 5 e 30 anni. A metà giugno, aveva esordito con un decennale. Il rendimento allora fu dello 0,06%, nettamente a premio rispetto al -0,25% della Germania. E gli ordini sono stati altissimi anche stavolta, sfiorando i 170 miliardi, più dei 142 della prima emissione.
In totale, grazie a questi eurobond la Ue ha raccolto 35 miliardi in appena un paio di settimane. L’obiettivo entro fine anno è di 80 miliardi, al fine di finanziare il Recovery Fund da 750 miliardi in 6 anni. Perché sì, a differenza dei piani pandemici messi in piedi dall’amministrazione Biden il Recovery Fund poggia sull’emissione di debito e non è solo il frutto del bilancio statale o di un aumento delle tasse. Formiche.net ne ha parlato con Veronica De Romanis, economista e docente alla Luiss.
Il debito europeo sembra aver convinto il mercato. Non le pare?
Assolutamente sì. Lo stesso Draghi all’Accademia dei Lincei ne ha parlato lungamente, il debito se buono ci può rafforzare ma anche rendere più fragili. In questo caso, siamo in presenza di un debito sano le cui risorse però non devono in alcun modo essere sprecare.
L’emissione di debito comunitario è da tempo un traguardo per molti Paesi dell’Ue. Quanto visto con le due aste finora è il preludio di un debito continentale di lunga durata?
Il fatto che i mercati si stiano fidando di questo debito è certamente un buon preludio. Ma per far diventare questi debito davvero strutturale occorre un lavoro con i nostri partner. Parlo del Patto di stabilità, che verrà dopo il Next Generation Eu, il quale è a sua volta un’operazione one shot. Allora, per fare seguito a questo debito comunitario serve andare oltre lo stesso Recovery Fund.
A proposito di Patto di Stabilità, tra qualche mese le regole di bilancio, ora sospese, potrebbero tornare. Ma proprio quelle o una versione aggiornata al post-pandemia?
Il Patto di stabilità dovrà essere semplificato, il che non vuol dire che le regole verranno eliminate. Forse su questo punto l’Italia ha troppe aspettative. Non è possibile abolire le regole, ma è auspicabile una loro semplificazione perché le regole proteggono la finanza. E comunque non dimentichiamoci che dentro il Patto c’è già tutta la flessibilità necessaria, lo ha detto anche Draghi.
I tedeschi non hanno mai digerito la condivisione del debito. Dobbiamo aspettarci dei problemi d’ora in avanti?
La Germania ha sempre preteso la riduzione del debito e dunque del rischio per poi passare alla condivisione. Ma se oggi abbiamo il Recovery Fund lo dobbiamo anche alla mediazione di Angela Merkel. Io dico che più l’Italia avrà successo con il suo Pnrr più ci sarà fiducia verso operazioni di condivisione del debito, quale quella attuale, anche e soprattutto agli occhi dei tedeschi.
Parliamo di Joe Biden, De Romanis. Vede analogie tra i piani pandemici americani e il Recovery Fund?
Le cifre sono diverse, la scommessa di Biden è quella di mettere il turbo alla crescita, ma ha già detto che poi andrà a toccare la tassazione. Quelle europee sono cifre diverse, minori con la logica che è quella di cambiare la crescita potenziale e dunque di fare le riforme. Sono cifre e probabilmente logiche differenti.
Gli Stati Uniti temono un rischio inflazione. Forse dovrebbe metterla in conto anche il presidente americano…
Lui per ora l’ha definita un fenomeno temporaneo, legato alle materie prime. Direi che è prematuro parlare di surriscaldamento dei prezzi strutturale, vediamo cosa succede nei prossimi mesi, anche a livello di banche centrali.