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Biden-Merkel, se la luna di miele è finita. L’analisi di Natalizia

Risolto in parte l’intoppo Nord Stream II, il rapporto fra Stati Uniti e Germania rimane in salita. A dispetto dell’intesa mostrata fra Biden e Merkel, la scommessa tedesca dell’amministrazione democratica si è mostrata rischiosa. E anche i Verdi non suscitano più speranze a Washington. L’analisi di Gabriele Natalizia, coordinatore di Geopolitica.info

La luna di miele tra Joe Biden e Angela Merkel è già finita. O, forse, non è mai cominciata a causa delle sue premesse. In molti avevano creduto che il peggioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Germania fosse dipeso prevalentemente dalle intemperanze caratteriali di Donald Trump e da una supposta torsione strategica della sua Amministrazione rispetto a quella di Barack Obama. Solo in pochi sembrano ricordare, infatti, che la polemica sulla spesa militare al 2% del PIL e le intercettazioni telefoniche della cancelliera tedesca risalgono proprio agli anni del doppio mandato del presidente democratico.

A dispetto degli onori tributati al cancelliere tedesco – prima donna e primo politico della Germania est a ricoprire tale ruolo, oltre che capo di governo tedesco più longevo dopo Helmut Kohl come ricordato dal presidente americano – le divergenze tra Washington e Berlino, infatti, restano numerose e riguardano tutte questioni di massima rilevanza strategica.

In particolare, i due Paesi sembrano molto distanti su una questione esiziale per la tenuta dell’ordine internazionale a guida americana, ovvero la postura da tenere nei confronti di quelle potenze – Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese – che l’amministrazione Biden ha definito “competitor strategici” degli Stati Uniti.

Rispetto ai rapporti con la prima, la Merkel esce vincitrice dall’incontro con Biden. Porta a casa la definitiva rinuncia americana alle sanzioni che stavano impedendo alla società Nord Stream 2 AG di completare l’ultimo tratto del gasdotto che raddoppierà il collegamento tra la costa baltica della Russia e il porto tedesco di Greifswald.

Nonostante l’accordo raggiunto preveda alcune garanzie (per l’Ucraina in particolare), una grande irritazione serpeggia comunque tra gli alleati e i partner dell’Europa centro-orientale, mettendo in discussione la credibilità delle garanzie fornite loro dagli Stati Uniti. Se è vero che la Casa Bianca non voglia vedere incrinata la sua leadership, lo è ancor di più che la maggiore insidia del completamento del Nord Stream 2 vada ricercata nell’intensificazione dei rapporti tra Berlino e Mosca.

Non perché l’amministrazione Biden sia in via di principio contraria a fare concessioni al Cremlino, come emerso durante l’ultimo summit di Ginevra. Piuttosto perché non può accettare che un soggetto terzo ne diventi l’artefice, come lo sta diventando la Germania grazie anche al ruolo egemone che si è ritagliata nell’Unione Europea proprio negli anni del cancellierato della Merkel.

Come dimostrato anche nel caso dell’affare Nord Stream 2, osteggiato dalla maggior parte dei Paesi Ue e capace di porre la Germania nel vantaggioso ruolo di hub energetico europeo (si veda https://bit.ly/2UK75ep). Un eccessivo rafforzamento tedesco, infatti, indebolisce la posizione contrattuale di Washington in vista di un futuribile processo di give&take da intavolare con Mosca per sganciarla dall’abbraccio di Pechino.

Anche in tema Cina le relazioni tedesco-americane non vanno meglio. Dalla prospettiva dell’amministrazione Biden, che sta concentrando i suoi sforzi al contrasto della minaccia strategica posta da Pechino, non possono che apparire frustranti le resistenze che Berlino e – sotto la sua influenza – Bruxelles pongono all’adozione di una postura più assertiva nei confronti della minaccia cinese.

Forse seconda solo a Emmanuel Macron, la Merkel ha ripetutamente fatto capire che la partnership economica con la Cina (che è il primo partner commerciale sia della Germania che dell’Unione Europea) vada nettamente distinta dal confronto politico che è in corso tra questa e gli Stati Uniti. In tal prospettiva Berlino è contraria al decoupling e vorrebbe intensificare ancor di più la cooperazione economica con Pechino, come dimostrato dalla sigla del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) tra Unione Europea e Repubblica Popolare Cinese lo scorso dicembre proprio prima dell’insediamento di Biden (poi sospeso lo scorso marzo a causa delle reciproche sanzioni imposte a seguito le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang).

Allo stesso modo, la Merkel è contraria all’interpretazione dei rapporti tra Occidente e Cina secondo il paradigma della “nuova Guerra fredda”. Per tale ragione ha continuato a fare apertamente resistenza nei confronti della possibilità di ampliare il raggio d’azione della NATO, mortificando quel tentativo di rilancio dei rapporti transatlantici che aveva portato Biden a definire “sacro” l’impegno americano nell’Alleanza (si veda https://bit.ly/2V8ZkOV) proprio per far dimenticare l’accusa di obsolescenza mossa in passato da Trump (si veda https://bit.ly/36YuqLU).

Una Nato impegnata globalmente, d’altronde, si trasformerebbe immediatamente in uno strumento di contenimento anche nei confronti della Cina (si veda https://bit.ly/3iEtG45), mettendo in imbarazzo quegli Stati – Germania in testa – che vorrebbe coltivare con essa rapporti improntati sul business as usual.

Occorre comunque ricordare che una posizione “morbida” nei confronti di Pechino è razionale agli occhi di Berlino anche per evitare uno scenario di medio-lungo termine ben diverso a quello su cui si è ragionato finora. Un domani che Washington cambiasse strategia nei confronti del suo arcinemico del momento, scegliendo magari di fargli concessioni per disinnescarne la sfida, chi avrà assunto negli anni precedenti una posizione intransigente nei suoi confronti potrebbe trovarsi a pagare lo scotto di essere stato più “realista del re”. E la Germania, per l’appunto, non si vorrebbe trovare in questa scomoda posizione.

La presa di distanze della Germania dagli Stati Uniti, d’altronde, era stata già paventata nel 2017 dalla Merkel, quando sostenne che l’Europa non doveva più contare solo sulla protezione esterna americana e inglese sulle questioni di sicurezza e doveva cercare maggiore indipendenza rispetto a un contesto politico-strategico globale marcato da una competizione crescente. Tale rivendicazione è stata sviluppata negli anni successivi in seno all’Unione Europea, su cui la kanzlerin ha fatto guadagnare al suo Paese una condizione sostanzialmente egemonica, nel concetto di “autonomia strategica”.

È forse per ragioni strategiche e non per affinità di vedute – tutte da dimostrare – in tema di transizione energetica che oggi Washington in molti guardano con interesse all’ascesa del partito dei Verdi in Germania, noti per le loro posizioni fortemente anti-russe e anti-cinesi.

Ma probabilmente anche queste aspettative rischiano di restar deluse. La storia è costellata di esempi di partiti che, soprattutto in materia di politica estera, una volta che arrivano al governo modificano anche radicalmente la loro posizione iniziale. Rapporti di potere e questioni geopolitiche possono risultare sgradevoli e aver un sapore tardo-ottocentesco, ma risultano difficilmente aggirabili anche dai campioni dell’idealismo.

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