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M5S al bivio, tra partito personale e partito padronale. L’analisi di Di Gregorio

Le strade sembrano inevitabilmente divise. Chi andrà con Conte dovrà capire cosa vuole essere il nuovo partito. Il partito personale funziona, ma per poco tempo. Chi resterà con Grillo avrà il compito di rifondare il Movimento, col rischio evidente di doverlo fare guardando nostalgicamente indietro e con la certezza di essere, oggi più che mai, in un partito padronale. L’analisi del politologo Luigi Di Gregorio

Leadership, identità, posizionamento e messaggio. Queste sono le condizioni per fondare (o per far sopravvivere) un partito nelle democrazie contemporanee.

In base a queste condizioni, a modo loro, Grillo e Conte hanno entrambi ragione.

Il MoVimento non ha più un’identità: la sua narrazione di fondo non funziona più perché in pochi anni i “cittadini” sono diventati “politici”, gli altri partiti sono diventati tutti potenziali alleati, quel posizionamento così facilmente distinguibile (siamo antropologicamente diversi, corriamo da soli e governeremo da soli) non esiste più. L’anti-establishment è diventato establishment, peraltro in governi di ogni tipo e colore.

Allo stesso modo, non risulta più credibile la versione del partito digitale, votato alla democrazia diretta (“voteremo tutto online”) e alla trasparenza (“faremo tutte le riunioni in streaming”).

Infine, mancano tematiche importanti per l’opinione pubblica che siano chiaramente “detenute” dal messaggio dei 5 Stelle: qual è oggi la loro posizione sull’Europa, sull’euro, sui grandi eventi, sulle grandi opere, sui diritti civili, sull’immigrazione, e così via. C’è una sola vaga tonalità green che tuttavia non distingue dagli altri.

Insomma, oggi circa un elettore su sei voterebbe ancora per loro, ma loro non sanno più cosa sono. Nel marketing si direbbe che manca la “reason why”, il perché votarli. Per qualcuno ancora c’è quel perché, ma è evidente che questa fidelizzazione stia tendendo a scemare col tempo.

In più c’è un problema di leadership. I leader sono sempre stati un ingrediente importante in politica. Nella democrazia dei partiti, però, lo erano un po’ meno. Il collante tra elettori e partiti era soprattutto ideologico. I capi di partito erano la ciliegina sulla torta, raramente la ragione per scegliere di votare o meno un partito. Oggi, spesso essi sono la torta. Perché la politica si è sempre più personalizzata, come la società. Individualizzazione, narcisismo, televisione e social media sono gli ingredienti base del cocktail personalistico della contemporaneità. Siamo tutti in vetrina, come singoli. E la politica non fa eccezione. Può esistere un partito senza un leader che funzioni? Certo, ma difficilmente andrà lontano. Di converso, una leadership popolare fa volare il partito e una che perde colpi trascina in basso anche il partito (inutile citare i casi recenti di Renzi o di Salvini).

Il MoVimento dell’uno vale uno nasce con una narrazione di leadership diffusa (siamo tutti uguali e tutti protagonisti), ma era solo un’abile formula distintiva. Il leader delle origini era chiaro, noto, popolare e mediaticamente efficacissimo. Dopo di lui, c’è stato l’interregno di Di Maio (selezionato anch’egli, nel mucchio dei parlamentari ignoti, dalla televisione, ossia dalla sua efficacia mediatica). Oggi il leader nettamente più popolare è Conte. E pare fin troppo evidente che i 5 Stelle con Conte avrebbero certi numeri, mentre ne avrebbero ben altri senza di lui. Tuttavia, Conte ha anche in mente una trasformazione radicale della forma-partito. Preso atto che il modello delle origini non funziona più, ha proposto una sorta di “normalizzazione” del MoVimento. Uno Statuto che non sia un Non-Statuto, un’organizzazione territoriale, la fine del monopolio di Casaleggio sugli iscritti e un ridimensionamento del ruolo del Garante (Grillo). Queste ultime figure, lo sa tutta Italia, non sono propriamente ornamentali. Finora hanno, di fatto, detenuto il partito e deciso “in ultima istanza” sulle vicende più importanti.
A Grillo questa transizione non piace, come era prevedibile. Perché significa abbandonare una volta per tutte il sogno originario, ma anche perché significa ridimensionare decisamente il suo potere, in diarchia con Casaleggio. Non a caso ha controproposto un voto su Rousseau per istituire un nuovo Direttivo. Della serie “scordiamoci di Conte, non è successo niente. Ricominciamo”.

In sintesi, Conte e Grillo sanno bene che il M5S oggi è una specie di fantasma, di dead party walking (un partito morto che cammina) che ha bisogno di nuove risorse vitali per sopravvivere. Nel breve, Conte può dare parecchio ossigeno con la sua leadership popolare. Ma nel medio periodo, non basterebbe a compensare i deficit di posizionamento, di identità e di messaggio. E soprattutto trasformerebbe una volta per tutte la creatura di Beppe e Gian Roberto.

Pertanto, le strade sembrano inevitabilmente divise. Chi andrà con Conte dovrà capire cosa vuole essere il nuovo partito. Il partito personale funziona, ma per poco tempo. Poi la leadership si consuma, e non resta nulla. Chi resterà con Grillo avrà il compito di rifondare il MoVimento, col rischio evidente di doverlo fare guardando nostalgicamente indietro, ai begli anni che furono, ma che non torneranno più. E con la certezza di essere, oggi più che mai, in un partito padronale.


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