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Dalla Lega al M5S, se i peones soffrono la zona Draghi. Parla Franchi

Conversazione con Paolo Franchi, già direttore del Riformista e firma del Corriere. In “zona Draghi” i ministri si adattano, i peones sugli spalti restano a bocca asciutta. Il semestre bianco un pericolo, ma i veri ostacoli per il governo sono due. Ecco quali

Una curiosa dicotomia taglia come il burro i partiti alla prova del governo Draghi. Un po’ come agli Europei di calcio, c’è chi grida indignato e detta schemi dagli spalti, e chi invece è in campo e deve passare dalla teoria alla pratica, dribblando come può. È quello che succede, ad esempio, a Lega e Cinque Stelle, gli ex alleati ora impegnati in una guerriglia sotterranea al governo, chi per il green pass, chi per difendere con i denti la riforma della Giustizia targata Bonafede.

In un solo Cdm, giovedì sera, il premier ha lasciato a bocca asciutta entrambi, per di più portando a casa un voto unanime. Usciti fuori da Palazzo Chigi, i ministri hanno dovuto spiegare ai peones sugli spalti che sì, il green pass sarà obbligatorio e no, la riforma Bonafede non rimane in piedi neanche un po’. A cosa si deve questo effetto della “zona Draghi”?

Paolo Franchi, già direttore del Riformista e firma storica del Corriere della Sera, si è fatto un’idea. “La zona Draghi è la zona governo. Se stai lì non sarai von Clausevitz, ma neanche l’ultimo dei passanti. Ti rendi conto che gli arroccamenti ideologici dei peones fuori servono solo a far franare tutto”. Certo il doppio ceffone di Palazzo Chigi rischia di lasciare i segni, rattizzare malumori. “Con due mezzi colpi Draghi ha confermato l’immagine di sé che, per fama, tutti già gli affibbiavano: ascolta tutti, decide da solo, e quando lo fa non cambia idea”.

Per eventuali ritorsioni, però, c’è ancora tempo. Fra una decina di giorni inizia il tanto atteso semestre bianco, la campanella della ricreazione: si può fare rumore e perfino qualche danno, senza rischiare di essere espulsi, perché le Camere non si sciolgono. Da agosto c’è da aspettarsi un’imboscata al premier? “C’è chi ci proverebbe gusto, la tentazione di aprire una crisi senza rischiare il passaggio elettorale solletica in tanti, ma ci vuole anche il coraggio, e quella è un’altra storia – dice Franchi. “Sono due piuttosto i pericoli che vedo sulla strada per la rielezione – riprende – il primo riguarda la condizione di un Movimento che è ormai un bubbone pronto ad esplodere, e soprattutto imprevedibile. Per quanto ci tenga ad accreditarsi come unico leader, lo stesso Giuseppe Conte non è così sicuro di controllare del tutto i gruppi parlamentari”.

Ecco, riflette Franchi, niente di meglio di un ossimoro per racchiudere in due parole la posizione dell’ex premier: “È di una fortissima debolezza. L’unico nel Movimento a vantare ancora una fetta consistente di consensi e popolarità personale, che però va via via scemando man mano che si allontanano i tempi di Palazzo Chigi. L’unico appiglio che ha è puntare i piedi in determinati passaggi. Chi si aspetta che un bel giorno ritiri i ministri dal governo, si sbaglia di grosso”.

A sventolare l’ombra del liberi-tutti ci ha pensato la ministra delle Politiche giovanili Fabiana Dadone, ma è durata un attimo, perché in serata è arrivato il retrofront, “sono stata fraintesa”. La pistola fumante resta sul tavolo, e si chiama riforma Cartabia, su cui è calata la ghigliottina della questione di fiducia. E però è ben presto per escludere un ritorno della maretta in Parlamento. “Credo che realisticamente i Cinque Stelle e Draghi si accorderanno per due o tre modifiche a metà tra il tecnico politico, un appiglio per restare in piedi. Nessuno è pronto a gridare muoia Sansone e tutti i filistei”.

Più insidiosa, semmai, è la corrida tutta intera al centrodestra, e quella gara sotterranea a strizzare occhiolini ai no-vax fra Lega e Fdi. Ancora una volta è stato Draghi a rattizzare i carboni ardenti con quel monito funereo, l’invito a non vaccinarsi è “un appello a morire”. “Salvini e Meloni rumoreggiano, ma senza esagerare – ragiona Franchi – sanno che il controcanto permamente al premier non è sostenibile di fronte a scelte che, numeri alla mano, sono meno impopolari di quel che si racconta. Una parte consistente di entrambi gli elettorati non ama questa ambiguità”.

Ma con i sondaggi che ormai distanziano le due corazzate del centrodestra di pochi punti decimali, un voto in più è un passo in avanti per la leadership, ovvero la premiership alle prossime elezioni. “Ecco, questo forse è il vero dato destabilizzante. Finché vigerà il principio che chi ha un voto in più diventa il candidato premier, non ci sarà modo di fermare la gara un po’ sporca per tagliare primi il traguardo. Imbizzarrimenti annessi”.

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