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Dall’Oglio, una lettera all’Isis e la fratellanza senza condizioni

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Sono passati otto anni da quel 29 luglio del 2013 durante il quale padre Paolo Dall’Oglio fu rapito a Raqqa. Oggi chi lo accompagnò per le strade della città testimonia con un messaggio inedito su Facebook sulle ultime ore del gesuita prima del sequestro. Un’importante luce su un buio che dura da tanto. Nelle parole di Riccardo Cristiano il ritratto di “un mistico con l’urgenza dell’impegno sociale”

Muhammad al Saleh è l’uomo che accompagnò padre Paolo Dall’Oglio per le strade di Raqqa dove venne sequestrato il 29 luglio 2013. Lo accompagnò mentre cercava un modo per venire in contatto con i leader dell’Isis ed è sicuro che Paolo portasse un messaggio per quella leadership dal capo del governo del Kurdistan iracheno. La guerra totale e devastante tra Isis e curdi era già alle porte, con orrendi massacri. Oggi Muhammad al Saleh ripete che il governo curdo dovrebbe confermare questa sua certezza, lo ha scritto su Facebook. L’ipotesi, formulata da una fonte così informata e autorevole, può avere un fondamento se si pensa all’insistenza di Paolo, contro ogni consiglio, di cercare il contatto. Ma questo tentativo non può avere successo se non si inquadra lui, Paolo Dall’Oglio, un mistico con l’urgenza dell’impegno sociale, del fare.

Le due dimensioni, misticismo e impegno concreto, fattuale, non sono separabili se si pensa a Paolo nel quadro drammatico della sua missione in Siria, la frontiera culturale scelta per la costruzione di un mondo di pace già negli anni Ottanta. Aveva capito benissimo quanto quella frontiera culturale, umana, religiosa, esistenziale fosse decisiva per tutti. E siccome lui era sicuro che bisogna saper vivere ma non sopravvivere, nulla esclude che abbia accettato di sfidare ogni logica per far avere quella missiva a uomini senza altra visione che lo scontro, perché sapeva – come disse proprio a me – che una guerra totale tra Isis e curdi avrebbe travolto tutto, almeno per milioni di persone. E poi… le conseguenze le vediamo intorno a noi?

Ma se il suo impegno è stato anche questo, cosa che io non so, sarebbe importante saperlo, otto anni dopo il sequestro. Sarebbe un tassello importante per capire questo gesuita che diceva “dovremmo essere tutti gesuiti cinesi”, quelli che negarono che Confucio fosse all’inferno. L’azione umana, concreta, quella che lo ha visto carpentiere che ristruttura il monastero di Deir Mar Musa, non è separabile da quello di intellettuale, di visionario di Dio, di mistico del dialogo concreto, tra esseri umani, in carne e ossa.

A chi gli chiedeva se desiderasse convertire arabi musulmani al cristianesimo, rispondeva di avere molto forte il desiderio di “convertirmi all’opera di Dio in ogni anima umana”. A volte i suoi superiori non la capivano, come quando disse alla Congregazione per la Dottrina della Fede che considerava forse fallito il disegno del cristianesimo. Davvero, gli chiesero. E si spiegò: non considerava per nulla fallito il disegno della Chiesa di Cristo, considerava fallito il disegno di un cristianesimo occidentale che occidentalizza popoli e culture, credeva con tutto se stesso invece nella Chiesa che porta a ogni credente, anche occidentale, altre culture, come quelle ancestrali dei popoli originari di Paesi come le Filippine, che visitò a lungo. Quelle culture ancestrali ai suoi occhi hanno valori e capacità che ci servono, ci servirebbero! Perché? Perché allargando lo sguardo a tutto il mondo si vede che “noi non andiamo verso assimilazioni reciproche, né verso equivoche misture, ma verso un orizzonte condiviso, si proiettano sintesi di pluralismo nella comunione”.

Ecco la sua Chiesa globale che entra in un processo globale che indica l’urgenza di “un profetismo in dialogo, interreligioso, in una esperienza sempre nuova dell’azione dello Spirito di Dio, nello spazio sacro del nostro incontro, della nostra ospitalità”. Dunque c’era la fratellanza universale nella sua prospettiva, ma riguardosa di ogni peculiarità culturale. Sapeva che la globalizzazione materiale aveva fatto male ai siriani. Perché le donne siriane cristiane vedendo in televisione altre cristiane, di Paesi cristiani, vestire diversamente da come vestivano loro presero a copiarle, assimilando un modello. Lo stesso fecero le siriane musulmane vedendo altre musulmane, in Paesi di un Islam ricchissimo e influente, vestire in modo diverso da come loro avevano sempre fatto e assimilarono un modello. La loro tradizione comune, indossare un velo leggero, sempre aperto e colorato, mai nero, sparì in una diversificazione indotta e sempre più percepita come spia di una diversità che non aveva una storia, una base.

Dunque? Dunque imparare ad accettare la diversità, ma avendo ben chiaro che è un dono, non un muro: “Il mistero della Chiesa non può che fondersi in uno con quello dell’Islam: tutta l’armonia dell’opera di Dio, in ogni tradizione, verrà alla luce del sole dell’ultimo giorno”. C’è in questo il mistero di Dio che gioca con le nostre differenze? Forse sì, perché “il grande mistero dell’Islam non può essere interpretato secondo la logica del principio di non contraddizione, deve esserlo secondo il principio dell’amore”.

Questa sua visione per me è in profondissima, piena sintonia con la visione di Francesco e dell’enciclica “Fratelli tutti” della quale lui è stato un precursore sulla frontiera dell’Islam. Tutto l’impegno di Francesco nel dialogo con quei popoli e quelle culture, quegli Islam, si legge nell’opera e nell’impegno di un uomo convinto che i fondamentalisti, tutti, sono convinti che fuori dalla vera fede ci sono solo false credenze e quindi una falsa umanità. Lui invece sapeva che non esistono false umanità: fratelli tutti.

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