Non solo la legge Zan calendarizzata la prossima settimana, c’è anche un altro risvolto dello scontro in atto che getta ombre inquietanti su quello che sarà il passaggio più difficile della legislatura: l’elezione del nuovo Capo dello Stato
E così il 13 luglio la legge Zan contro l’omofobia va in aula al Senato senza un accordo tra forze politiche che lo sorregga. Una specie di rodeo, dove si affollano e si mischiano pulsioni identitarie e manovre politiche, e che contrasta con un principio basilare del ruolo del Parlamento: evitare gli scarponi chiodati dell’ideologia nelle questioni etiche. Le quali per loro stessa natura sconsigliano fondamentalismi e guerre di religione essendo un terreno sul quale nessuno può pretendere di avere in tasca la verità assoluta. In questi casi la capacità di dialogo dovrebbe prevalere sulle logiche di schieramento: i principi vanno certamente difesi ma altrettanto certamente devono trovare una sintesi che consenta di produrre una legge: l’armatura del “o così o niente” porta inevitabilmente al secondo risultato.
Ma, come hanno sottolineato molti analisti, c’è anche un altro risvolto dello scontro in atto che getta ombre inquietanti su quello che sarà il passaggio più difficile della legislatura: l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Intanto crescono i boatos sul fatto che Sergio Mattarella rimanga del tutto indisponibile alla ricandidatura: per motivi istituzionali, personali e anche politici visto che non è detto che i tanti che si affannano a reclamare un prosieguo del mandato possano trasformarsi nelle votazioni a scrutinio segreto in sicuri Grandi Elettori. Il rischio che la ricandidatura di Mattarella, benché sollecitata, possa alla fine non trovare i consensi necessari in Parlamento rappresenterebbe un doppio collasso istituzionale. Meglio evitare.
Di conseguenza, per un ovvio effetto rimbalzo, si fanno più forti le voci che dicono che alla fine Mario Draghi accetterebbe di buon grado il trasloco da Palazzo Chigi al Quirinale e ciò in molte Cancellerie farebbe tirare un sospiro di sollievo sul fatto che la prossima legislatura, qualunque sia la maggioranza che prevarrà nelle urne e segnatamente se sarà di centrodestra, avrà un Timoniere in grado di evitare sbandamenti e incertezze su Recovery e Pnrr.
Al momento sono poco più di chiacchiere. Che tuttavia non possono nascondere il dato politico di fondo. E cioè che il pericolo più grande è che si arrivi alle votazioni per il Colle con i partiti in ordine sparso, senza uno straccio di regia. Matteo Renzi si è candidato al ruolo, riproponendo lo schema che sette anni fa risultò vincente. Ma è evidente che la soluzione più adeguata alla situazione sarebbe che il prescelto godesse dell’appoggio dei partiti maggiori, visto che la presidenza della Repubblica nel nostro ordinamento è un organismo arbitrale e di garanzia. Immaginare accordi preventivi come quelli stipulati da Dc e Pci che portarono all’elezione di Francesco Cossiga sono, allo stato, chimerici.
Però, scontando il fatto che la confusione in atto nel M5S non avrà vita breve, prevedere che almeno Lega e Pd intavolino trattative per individuare un nome condiviso, sarebbe scelta saggia e opportuna. Proprio sotto questo profilo, però, stonano i contrasti belluini che stanno opponendo le due leadership sulla legge Zan, coinvolgendo e travolgendo anche Renzi. Se infatti si instaura un clima di contrapposizione molto decisa, che verrà vieppiù per inevitabile forza d’inerzia alimentata dalla tornata amministrativa del prossimo autunno, allora la strada dell’accordo per il Colle diventa una scalata con difficoltà eccezionali. Esattamente il contrario di ciò che serve al Paese in un momento delicatissimo di passaggio. Il clangore ideologico dovrebbe lasciar spazio alle tutele identitarie dei partiti avendo sempre come bussola il perseguimento dell’interesse generale e non le singole convenienze. È una lezione che molti preferiscono mandare in soffitta. Ma è un grave errore. Speriamo che i “visionari” stavolta abbiano un sussulto di responsabilità.