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Così la disinformazione è diventata prêt-à-porter, globale e inafferrabile

Che succede quando una potenza può appaltare a terzi una campagna di disinformazione? Cosa significa per le democrazie? Basta confondere le distinzioni tra influencer, aziende e governi e si ottiene un caos informativo che può diventare un’arma, disponibile con poche migliaia di euro

A giugno Formiche.net aveva raccontato lo strano caso degli influencer francesi a cui veniva proposto di denigrare il vaccino Pfizer dietro compenso. Un’operazione che portava il marchio delle strategie di disinformazione care al Cremlino (gli argomenti erano identici a quelli utilizzati nella campagna di promozione del vaccino russo Sputnik V). L’offerta proveniva da una compagnia farlocca, Fazze, che è sparita dalla rete non appena gli interessati hanno pubblicato gli screenshot delle mail. Intanto gli argomenti in questione comparivano altrove, in bocca a influencer brasiliani e indiani.

Da allora, diverse ricerche hanno confermato che non si tratta di un caso isolato. Dopo un anno e mezzo di pandemia Facebook è diventata molto più efficiente nel sospendere attività coordinate e illecite e pubblicare rapporti dettagliati. Attraverso questi dati e studi indipendenti, svariati analisti (di Atlantic Council, Graphika, Oxford University, Stanford Internet Observatory e diverse testate giornalistiche) hanno rilevato lo stesso fenomeno in decine di Paesi in giro per il mondo.

Si tratta di campagne mediatiche apparentemente organiche in cui i promotori lavorano dietro compenso. Una società canadese, scrive il New York Times, si spacciava come servizio di fact-checking, i cui contenuti pro-governo erano rilanciati dai diplomatici indiani. Una compagnia egiziana serviva gli interessi geopolitici del Paese in Etiopia, Sudan e Turchia promuovendo il Cairo e criticando, tra le altre cose, la diga sul Nilo Azzurro. Una compagnia basata negli Usa operava per manipolare le opinioni degli elettori in Bolivia, Messico e Venezuela, mentre altre due – brasiliana e ucraina, rispettivamente – si davano battaglia per l’elezione del sindaco di una città in Brasile.

L’obiettivo di queste campagne è piantare nell’infosfera-target contenuti precisi. La modalità è diffondere talking points, seminare discordia, fatti e opinioni creati ad arte per manipolare elezioni, diffondere notizie false e teorie cospirazioniste. Insomma, interferenza e influenza estera mediante pratiche che un tempo erano appannaggio esclusivo delle agenzie di intelligence. Con la differenza che internet ora permette a queste operazioni di essere delocalizzate, o addirittura essere offerte come servizio da un’agenzia specializzata.

Oggi, sui social – grazie alla quantità e alla varietà di voci, assieme allo scarso “controllo editoriale” – una campagna del genere è poco costosa, ha una portata immensa e ha il vantaggio di apparire spontanea, organica. È facile integrarla con finti gruppi d’interesse online, articoli infondati, voci solo apparentemente indipendenti. I contenuti appaiono direttamente nel discorso pubblico e lo impattano senza che si possa sospettarne l’origine, proteggendo i beneficiari dietro a uno scudo di deniability. Tanto che un governo può celarsi dietro a disinformatori inconsapevoli.

“I promotori di ‘disinformazione a noleggio’ impiegati da governi o soggetti collegati sono in crescita e destano preoccupazione”, ha detto al NYT Graham Brookie, direttore del Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council. “È un’industria in forte espansione […] Purtroppo c’è un’enorme richiesta di disinformazione da parte del mercato, e molti ambienti nell’ecosistema che sono più che disposti a soddisfare tale domanda”. Una ricerca dell’Università di Oxford ha individuato 65 agenzie specializzate in disinformazione a noleggio, assieme alle tracce delle loro operazioni in 48 Paesi nel solo 2020.

Chi c’è dietro? L’attribuzione è sempre difficile, ma qualcosa si può dedurre dal chiedersi chi può beneficiare da una data campagna di disinformazione. Nel caso di attività coordinata tra bot cinesi impegnati a diffondere propaganda, è evidente che il committente sia Pechino. Nel caso di Pfizer e Sputnik, è lecito presumere che il produttore di quest’ultimo (ancora poco diffuso in Occidente) possa trarre beneficio dal promuovere sospetti infondati su un prodotto rivale. Due testate tedesche hanno collegato Fazze ad Adnow, una compagnia pubblicitaria di dubbia reputazione; gli organi europei stanno investigando chi potrebbe aver usufruito dei suoi servizi. Il collegamento con il produttore del vaccino statale russo, benché perfettamente logico, è però arduo da dimostrare.

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