L’accordo per una tassa globale sulle multinazionali raggiunto al G20 di Venezia è storia, ma l’appuntamento è al prossimo ottobre per sciogliere i nodi rimasti, dall’aliquota fiscale alle web tax nazionali. Il commento di Gianfranco Polillo
In quella cornice unica al mondo, come può essere la città di Venezia, i Paesi del G20 hanno cercato di fare i conti con i grandi problemi che affliggono un umanità ancora incerta e smarrita, costretta a contrastare una potenza estranea, come il Covid-19, ancora, per molti versi misteriosa.
Si é cominciato dall’argomento più semplice: la tassazione delle grandi multinazionali che, anche grazie allo sviluppo della pandemia, hanno visto crescere i propri utili a dismisura, segnando la profonda frattura tra i settori tecnologici ed le attività che richiedono, invece, la presenza fisica: turismo, ristorazione e via dicendo. Al punto da costringere gli economisti ad individuare nella lettera “k”, il logo della possibile ripresa: tra chi avanza a passo di carica e chi, invece, resta indietro.
La “pratica” per così dire, era stata istruita dall’Ocse, dopo le riunioni dello stesso G20 dello scorso maggio e del G7 del luglio. Tassa minima del 15 per cento, da calcolare sulle vendite realizzate in ciascun paese, dalle multinazionali (tutte le multinazionali) che presentano un fatturato superiore ai 20 miliardi ed un tasso di profitto pari al 10 per cento del capitale investito. Accordo unanime, salvo i più diretti interessati: Paesi come l’Irlanda, l’Ungheria o la Slovenia ai quali si aggiungono i tradizionali paradisi fiscali caraibici delle Barbados o delle Grenadine.
L’appuntamento definitivo é per il prossimo ottobre, data in cui si spera di aver sciolto i nodi ancora aperti. Alcuni dei quali riguardano proprio l’aliquota fiscale, che la Francia, ma anche gli Stati Uniti, almeno a quanto sembra, ritengono troppo bassa. Si teme, infatti, che, in questo caso, alcuni Paesi potrebbero mantenere in vita le loro web tax. Si tratterà poi di stabilire regole anti elusive, al fine di evitare che chiusa una finestra si apra un portone. Ne varrà comunque la pena. L’imponibile finora evaso, secondo i calcoli dell’OCSE, ammonterebbe a 100 miliardi di dollari.
Che c’entra tutto ciò con i problemi angosciosi di cui si diceva all’inizio? In futuro serviranno tanti soldi per far fronte alla lotta contro il virus. O meglio: i virus. A Daniele Franco é toccato il compito di illustrare il rapporto, stilato da alcuni economisti di chiara fama, come Larry Summer o Kristalina Georgieva, dal titolo: “A global deal for our pandemic age”. Il timbro del documento é vagamente malthusiano. Con la previsione di ulteriori non meglio specificate pandemie, nei confronti delle quali é necessario attrezzarsi.
Ed attrezzarsi significa avere a disposizione risorse finanziarie adeguate, per intervenire soprattutto nelle aree più povere del mondo. Non si tratta di “buonismo” o di una generosità eccessiva. L’esperienza di questi ultimi mesi dimostra quanto possa essere forte l’interdipendenza pandemica tra i diversi Paesi ed aree del mondo.
E quanto preoccupante sia la velocità di trasmissione del virus. Occorreranno pertanto nuovi investimenti nella ricerca preventiva e somme ancora maggiori nella logistica della distribuzione del vaccino. Per un totale, secondo alcune previsioni, di 75 miliardi in 5 anni. La tassa sulle multinazionali dovrebbe contribuire.
C’é infine un aspetto più di fondo, che ha fatto da collante all’intero dibattito: la termodinamica del Pianeta, per riprendere le parole del Ministro Cingolani. Vale a dire quel gigantesco programma di riconversione globale (industria, consumi, modi di vita) cui é affidato il futuro prossimo venturo. I numeri sono impietosi. Entro il 2030 (tra meno di 9 anni) le missioni di anidride carbonica dovranno essere tagliate del 55 per cento. Ed essere azzerate al termine dei successivi 20 anni.
La produzione di gas serra deriva per il 25 per cento dalla mobilità, per il 30 per cento dall’industria, per un altro 25 per cento dal riscaldamento domestico e per il restante 20 per cento dall’agricoltura. Dati che, con la loro circonferenza a 360 gradi, dimostrano quanto complesso e costoso sarà l’intervento da realizzare, sempre che s’intenda rispettare i target previsti. Solo in campo energetico, secondo le previsioni del Ministro Cingolani, nei prossimi 9 anni dovranno essere istallati 70 gigawatt di energia pulita: 8 all’anno, dieci volte tanto quanto finora si riesce ad impiantare.
E visto che siamo in tema, occorrerà predisporre quanto prima almeno 20 mila centrali elettriche, per favorire il progressivo abbandono del motore a scoppio. Operazione non facile da realizzare, considerato che, al momento, circolano in Italia oltre 13 milioni di veicoli con motori inferiori all’Euro 2. Segno evidente di una notevole lentezza nell’ammodernamento del parco auto. C’é da dire che una vettura completamente elettrica, ancora oggi, é ben poco attrattiva. Il suo prezzo é troppo elevato, l’autonomia limitata, le possibilità di rifornimento complicate anche a causa dei tempi necessari per la ricarica. Salvo poter disporre di un proprio garage, dopo attaccare la spina durante la notte.
Secondo il piano industriale del gruppo Stellantis, frutto della fusione tra Fca e Peugeot, i veicoli elettrificati arriveranno a rappresentare oltre il 70% delle vendite in Europa e più del 40% di quelle negli Stati Uniti entro il 2030. Nel frattempo la ricerca va avanti, specie per quanto riguarda l’autonomia. Si parla già di 500 o 800 kilometri, contro gli attuali 150. E che non si tratti di semplici previsioni, lo dimostrano le decisioni assunte. Con la scelta di Termoli per la gigafactory italiana (produzione delle batterie di nuova generazione), dopo quella Douvrin in Francia e Kaiserslautern in Germania.
C’é poi il grande tema della Carbon-tax. Anche a questo problema si accennato,per proporre un rialzo consistente del prezzo dell’emissione di CO2. Volto di conseguenza a scoraggiare l’utilizzo delle materie prime, in particolare del carbone, particolarmente inquinanti. Attualmente i prezzi sono pari in media a 3 dollari la tonnellata di CO2. La proposta di Kristalina Georgieva, direttrice del FMI, é di portarla a 75 dollari. Un balzo così forte che trova giustificazione nelle precarie condizioni del Pianeta Terra.
Sarà stato un G20 produttivo? Solo il tempo potrà dirlo. Nel frattempo, tuttavia, la BCE ha deciso che un tasso d’inflazione al 2 per cento, fino a ieri tabù di tutti gli economisti ortodossi, non farà più paura. Si passerà ad un “target simmetrico”: nel senso che quel valore potrà aumentare o diminuire a seconda della fase del ciclo. Rimarrà comunque come benchmark di medio periodo.
Di fronte alle difficoltà del futuro e proprio al fine di scongiurare le oscure profezie di Thomas Robert Malthus, l’abatino contro il quale si era scagliato Carlo Marx, occorrerà investire come non mai nel recente passato. La BCE lo ha capito e deciso di conseguenza. All’appello manca ora solo una riforma del Patto di stabilità, per chiudere il cerchio e fare sistema.