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Così l’Indo-Pacifico è diventanto un teatro globale. Parla Pugliese (IAI)

Conversazione con Giulio Pugliese (IAI/Oxford/EUI) sul ruolo cruciale dell’Indo-Pacifico nelle dinamiche globali. Come e perché il quadrante è diventato un motore degli affari internazionali

Più che l’area vasta le cui connotazioni geografiche si perdono a secondo delle dottrine strategiche, con il termine Indo Pacifico si individua lo snodo delle più delicate dinamiche geopolitiche che ruotano attorno al confronto globale tra Cina e Stati Uniti, ma con tanti attori coinvolti. Formiche.net ne ha parlato con Giulio Pugliese, lecturer alla OSGA di Oxford, senior fellow allo IAI, Part-Time Professor presso lo Robert Schuman Centre dello European University Institute, tra i massimi esperti della regione e di recente autore di un’analisi fornita al Parlamento italiano.

Cos’è l’Indo-Pacifico?

È un termine politico, non geografico, tant’è che il perimetro dell’Indo-Pacifico varia a seconda delle formulazioni strategiche. Per Washington la macro-regione si estende dalle Hawaii (dove è di stanza l’Indo-Pacific command) all’India; per Tokyo arriva addirittura a lambire le coste orientali dell’Africa. Insomma, bisognerebbe fare attenzione a usare il termine – poiché è chiaramente un costrutto politico, un significante che farebbe la gioia dei semiologi. Similmente alla grande strategia/slogan cinese della Belt and Road Initiative (da noi conosciuta soprattutto come Nuove Vie della Seta), l’Indo-Pacifico è un test di Rorschach che si carica di significati in funzione delle aspettative e degli interessi del paese di rifermento in un dato contesto storico-politico, se non dei pregiudizi del singolo individuo. Ad esempio, se le visioni “indo-pacifiche” giapponesi e statunitensi sono sostanzialmente interessate a contrastare la Cina, quelle europee e dell’Asean sono decisamente più inclusive.

Con quali evoluzioni?

Il termine originariamente ambisce a diluire la presenza della Cina sia a livello geopolitico, istituzionale che economico e andrebbe ricostruita una piccola genealogia dello stesso per capire meglio l’incredibile varietà di definizioni di Indo-Pacifici. Il concetto nasce col Giappone di Abe Shinzō, che già durante il primo premierato del 2006-07 si muove di concerto con gli Usa per confrontare l’accresciuta proiezione politica, economica e geopolitica di Pechino. In concreto, l’unione degli Oceani Indiano e Pacifico inquadrano nuovi mercati ed economie emergenti – quali India e sudest asiatico – per diversificare dalla Cina; mercati il cui sviluppo viene favorito anche da ingenti aiuti ufficiali allo sviluppo (ODA) e connettività regionale. A livello istituzionale, il concetto di Indo-Pacifico riconosce la volontà di attori regionali quali il Giappone di allargare le maglie dei trattati commerciali multilaterali e degli organismi regionali, includendovi India, Australia e Nuova Zelanda se non attori extra-regionali (si veda per esempio il CPTPP e la possibile inclusione a breve del Regno Unito), di fatto aspirando a diluire il peso economico e  politico della Cina. Da ultimo, il concetto mira a bilanciare la proiezione cinese nei mari con entente sempre più strette a livello militare tra i paesi del cosiddetto Quad (organizzazione che comprende Giappone, Stati Uniti, India, e Australia, ndr).

Il ruolo del Giappone è centrale dunque in tutta la costruzione, con un pensiero: la Cina

Sia il Quad che l’Indo-Pacifico provengono da Tokyo, un aspetto che suggerisce quanto forti siano i sospetti del Giappone nei confronti di una potenziale egemonia cinese, già a partire dal 2005-06. Del resto, la macro-regione nasce come narrazione strategica in Giappone, già con l’Arco della Pace e della Prosperità della prima amministrazione di Abe Shinzō (2006-07), per controbilanciare l’accresciuta potenza della Repubblica Popolare Cinese. L’Arco della Prosperità e della Pace (APP) fu inaugurato nel 2006 e aspirava a dotare il Giappone di una grande strategia che si sarebbe estesa dall’Oceano Pacifico a quello Indiano, a complemento dell’Arco dell’Instabilità statunitense.

La Cina era al centro di tale grande strategia e Tokyo aspirava a gestire i rapporti con Pechino (sebbene certe dinamiche erano viste con sospetto dai falchi intorno a Abe Shinzō già nel 2005). Il Giappone provava un uso coordinato di leve militari, economiche e politiche, di concerto con paesi più o meno allineati, come Stati Uniti, Australia e India in primis. E poi?

Coerentemente con la visione dei fidati consiglieri di politica estera, il secondo premierato Abe (2012-20) promuove una visione strategica simile all’ Arco della Prosperità e della Pace, stavolta a favore di un Indo-Pacifico Libero ed Aperto. L’obiettivo primario è immutato e più urgente: arrestare l’accresciuta proiezione politica, (para)militare ed economica cinese negli Oceani Indiano e soprattutto Pacifico e far richiamo più esplicito al diritto internazionale –in special modo alla libertà di navigazione e sorvolo dei mari aperti−, ai valori universali e alla risoluzione pacifica delle dispute. Invero, i decisori politici giapponesi formulano la strategia per un Indo-Pacifico Libero e Aperto anche e soprattutto a mo’ di alternativa alla Belt and Road Initiative (Bri) o Nuova Via della Seta cinese.

Uno scatto nel portare in primo piano la regione, c’è stato quando la presidenza Trump (2017-21) ha iniziato a vedere con favore il Quad e l’Indo-Pacifico…

Del resto, la squadra di politica estera dell’Amministrazione Trump si componeva di un nutrito numero di ex ufficiali militari in posizione di preminenza alla Casa Bianca, nonché in qualità di ambasciatori e funzionari di rango in seno al servizio diplomatico, in particolare nel teatro asiatico. Unitamente al dilettantismo di molti di questi funzionari − spesso alle prime armi in settori non di loro competenza e con una visione prettamente Manichea − e alla farraginosità dei processi decisionali sotto Trump, il Giappone di Abe è riuscito, in concerto con l’Australia a guida conservatrice, a spingere gli Stati Uniti verso una politica di contenimento della Cina. Non è un caso, quindi, che la rinascita del Quad con un incontro tra funzionari diplomatici senior a latere del Vertice dell’Asia Orientale nel novembre 2017 coincida con l’acquisizione Usa della cornice strategica per un Indo-Pacifico. Per la prima volta nella storia, Washington ha fatto propria un’iniziativa di politica estera e di sicurezza nell’area del Pacifico di un paese alleato. L’importazione del concetto è soprattutto merito della diplomazia giapponese che si è premurata di ingaggiare l’Amministrazione Trump a tutti i livelli – incluso il presidente.

L’Amministrazione Biden ha fatto propria l’iniziativa dei predecessori, comunque, nonostante le iniziali riserve a favore di una ridefinizione, perlopiù retorica, in chiave di Indo-Pacifico “Prospero e Sicuro”. 

Invero, la regione indo-pacifica costituisce il principale focus della macchina di decisione politica statunitense. In termini di personale, la direzione per l’Indo-Pacifico in seno al Consiglio Nazionale per la Sicurezza è tre volte più grande della Direzione Europa, e con competenze che si estendono dal Giappone alla Russia. Il coordinatore per l’Indo-Pacifico, Kurt Campbell, ha recentemente rimarcato che “ricalibreremo il nostro focus strategico, i nostri interessi economici, e la nostra potenza militare nell’Indo-Pacifico”, una regione “che sarà il teatro principale della storia del 21° secolo”. Se le alleanze degli Stati Uniti costituiscono il perno della nuova amministrazione, Campbell ha al contempo annunciato un elemento di continuità rispetto all’amministrazione Trump: “L’era comunemente descritta come quella dell’ingaggio diplomatico (engagement) della Cina è finita, e stiamo adottando nuovi parametri strategici; [il] paradigma dominante sarà quello della competizione”. Insomma, per gli Stati Uniti il contenimento della Cina rimane centrale nella definizione di Indo-Pacifico, e per l’Amministrazione Biden ciò avverrebbe in concerto con gli alleati democratici. La visione europea aspira, di contro, ad una definizione più inclusiva rispetto all’approccio statunitense anche nell’era Biden. Da questo breve excursus si capisce che per Giappone e Stati Uniti il termine Indo-Pacifico è sostanzialmente in funzione di bilanciamento cinese, o perlomeno atto a negare una sfera di influenza cinese, in primis nell’immediato vicinato.

Se è vero che Washington ha sfruttato anche l’interesse di partner e alleati regionali, che partita sta giocando l’Europa? 

Il 19 aprile 2021, il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato le conclusioni su una Strategia dell’Ue per la cooperazione nella regione indo-pacifica, una macro-area che per la Ue si estende dalla costa orientale dell’Africa agli stati insulari del Pacifico e l’Asia Orientale. L’Ue intende rafforzare la presenza politica, economica e militare in una mega-regione, che produce il 62 percento del Pil mondiale e contribuisce i due terzi del tasso di crescita dell’economia globale, ma che è al contempo teatro di “un’intensa concorrenza geopolitica” tra Cina e Stati Uniti, di “crescenti tensioni negli scambi commerciali e di approvvigionamento” e “[della] messa in discussione dell’universalità dei diritti umani”, come sancisce il documento Ue.

Quali sono gli interessi e gli obiettivi reciproci e/o condivisi in ballo?

La nuova strategia dell’Ue prende atto della ritrovata assertività della Cina, proponendosi tra l’altro di intensificare l’“impegno nella regione cosiddetta indo-pacifica, in particolare con i partner che hanno già annunciato i loro approcci per la regione”. Al netto del contenimento della pandemia e degli effetti di questa sull’economia interna, il 2020 è stato un annus horribilis per Pechino. Le molteplici tensioni territoriali e marittime nell’immediato vicinato (soprattutto con Taiwan, India Vietnam e Giappone), la retorica belligerante usata dai diplomatici cinesi a cui ci si riferisce con l’espressione wolf warriors, la morsa del Partito Comunista Cinese sull’autonomia di Hong Kong, la repressione in Xinjiang e la cosiddetta diplomazia “delle mascherine” (mask diplomacy) hanno creato un certo ostracismo internazionale verso la Cina, soprattutto in paesi occidentali. Ma più di tutto, la pandemia ha esacerbato le tensioni tra Stati Uniti e Cina, quasi come si trattasse di una nuova Guerra Fredda.

L’attenzione dell’UE verso l’Indo-Pacifico la porta ad allinearsi con un trend globale, dunque… 

Dal 2016 in poi, il Giappone, l’Australia, gli Stati Uniti, l’India e finanche l’Association of South-East Asian Nations (Asean), nonché anche stati membri come Francia, Germania e Paesi Bassi, si sono dotati di linee guida sulla regione indo-pacifica in rapida successione. A latere delle conclusioni del Consiglio della Ue su una Strategia dell’Ue per la cooperazione nella regione indo-pacifica, il managing director per l’Asia-Pacifico dello Servizio Azione Esterna della Ue, Gunnar Wiegand, ha riconosciuto questo aspetto sottolineando come l’Indo-Pacifico sia un termine composito: “un termine di cui preoccuparsi, oppure che ci rende più interessati, o addirittura più coinvolti nella regione”. Se è vero che i termini delle conclusioni sono inclusivi ed aperti alla Cina, la strategia si propone di approfondire l’approccio nella regione, soprattutto con paesi che si sono già dotati di approcci indo-pacifici, un chiaro segnale che mira ad approfondire con paesi asiatici diversi dalla Cina.

Di contro però, non è un caso che le strategie di Francia, Germania e Olanda poggino su una visione aperta e inclusiva della regione e omettano riferimenti espliciti all’Indo-Pacifico Libero e Aperto. 

L’enfasi statunitense sul decoupling, il confronto strategico a tutto campo, per non parlare dell’ingaggio in una guerra politica attraverso pressioni asimmetriche nei confronti della Cina – una linea divenuta particolarmente evidente nell’ultimo anno dell’amministrazione Trump −  è stata vista con timore dagli alleati europei. Testimonianze dirette suggeriscono che il governo tedesco fosse particolarmente sospettoso del concetto di Indo-Pacifico a causa della declinazione particolarmente anti-cinese a Washington. Ravvedendo nell’amministrazione Biden una continuazione, seppur sfumata e sicuramente dai toni più cortesi, della competizione strategica con la Cina, le conclusioni del Consiglio dell’UE enfatizzano l’elemento cooperativo già dal titolo.

L’Ue è il principale fornitore mondiale di aiuti pubblici allo sviluppo e connettività, con ben 410 miliardi di dollari elargiti tra il 2013 e il 2018, contro i 34 miliardi finanziati dalla Cina durante lo stesso periodo. Del resto, a fine 2018 l’Alto Rappresentante e la Commissione hanno delineato gli elementi per una strategia europea in una comunicazione congiunta…

L’ex presidente della Commissione Jean-Claude Junker ha inaugurato con Abe una EU-Japan Partnership on Sustainable Connectivity and Quality Infrastructure con l’intento dichiarato di promuovere iniziative congiunte in materia di connettività. Da ultimo, il Consiglio dell’Ue ha costruito sulle iniziative precedenti in tema di connettività, approvando ieri le conclusioni su un’Europa connessa a livello globale, finalizzate ad un approccio geostrategico e globale in materia di connettività. Se è vero che gli stati membri Ue operano in maniera meno mercantilistica rispetto ai paesi asiatici – Cina in testa — anche l’Europa intende promuovere lo sviluppo di economie emergenti nell’Indo-Pacifico favorendo le proprie eccellenze industriali e commerciali. Ad esempio, l’interesse europeo verso la connettività digitale – menzionata nella strategia Ue sull’Indo-Pacifico − mira proprio a sviluppare l’enorme potenziale dei mercati digitali del Sudest Asiatico e dell’India, con miliardi di utenti e una forte propensione all’e-commerce e all’uso di tecnologie finanziarie (fintech). Similmente, l’assistenza a favore di uno sviluppo sostenibile e per una transizione verso l’economia verde mira a favorire le eccellenze europee in tale settore.

Unitamente agli accordi di libero scambio, che l’UE preferisce negoziare a livello bilaterale con i singoli stati, la diplomazia economica della connettività contribuirebbe all’esportazione degli standard normativi europei, con ricadute commerciali e politiche notevoli. 

I trattati di libero scambio e le partnership per la connettività permetterebbero all’UE di collaborare con grandi economie come il Giappone su temi  quali la lotta al riscaldamento globale e la creazione di norme e standard industriali internazionali in vari settori, dall’automobilistica,  passando per la farmaceutica, alle telecomunicazioni e la governance dei dati. La speranza è che questi standard diventino globali, arginando i desideri e le pratiche  protezionistiche di Cina e, in misura minore, degli Stati Uniti. Per far fronte alla sfida cinese, forme di cooperazione a livello bi e minilaterale sul dossier connettività sono sempre più comuni. Al recente vertice G7, ad esempio, l’UE e le sue economie più avanzate hanno aderito all’iniziativa del governo Biden di finanziamento delle infrastrutture (soprattutto quelle verdi) in paesi terzi. Allo stesso tempo, l’Ue ambisce a inserirsi nell’incipiente bipolarismo Usa-Cina presentandosi  come partner affidabile per Asean e India. Nell’approcciarsi a questi paesi l’Ue tenta anche di intercettarne l’aspirazione a conquistarsi uno spazio d’azione autonomo rispetto a Cina e Usa, un’ambizione che ricorda quella europea per un’autonomia strategica. L’Ue vuole quindi mantenere un regime multilaterale nel senso più ampio possibile, di concerto con altre medie potenze, anche per ritagliarsi uno spazio di manovra nella rivalità strategica sino-americana.

E l’Italia? Roma ha interesse e possibilità di proiettarsi anche su quel quadrante?

Paesi quali la Germania e l’Italia rimarranno prudenti circa il dispaccio di navi militari nel Mar Cinese Meridionale – teatro principale dello scontro USA-Cina e della ritrovata assertività cinese – e non solo per timore di offendere Pechino. Tali missioni sono economicamente dispendiose e potenzialmente poco appetibili all’opinione pubblica nazionale – soprattutto in Germania. Il percorso della missione navale diplomatica di una fregata italiana, schierata nel 2017 nell’Indo-Pacifico ha volutamente evitato di attraversare il Mar Cinese Meridionale. Il dispaccio di una fregata tedesca nella regione include un passaggio per il Mar Cinese Meridionale solo sulla via del ritorno, previo scalo a Shanghai e con l’annuncio pubblico che la nave da guerra non transiterà entro le 12 miglia marittime di isolotti contesi – un segnale chiaramente distensivo nei confronti di Pechino. Sul fronte economico, si può invero aspirare a giocare una partita più strategica poiché l’Europa detiene importanti leve finanziarie, normative e industriali. Un’area di grande potenziale per l’Ue e gli stati membri è lo sviluppo della connettività tra Asia ed Europa. Allo stesso tempo, sarà difficile coordinare tra paesi donatori e paesi recipienti poiché deve ritrovarsi una comune intesa sugli interessi in gioco, un’impresa non da poco. Non si dimentichi però che la Cina rimane un’economia vibrante ed in crescita; al netto delle pratiche scorrette, il mercato della Repubblica Popolare rimane imprescindibile per le esportazioni europee. In breve, a livello economico l’Italia –come il resto d’Europa– si proietterà con maggiore decisione verso i ricchi mercati della regione, senza perdere d’occhio le potenzialità del (e i rischi associati al) mercato cinese.

Esiste un potenziale punto di incontro tra la proiezione economica e strategica dell’UE e l’Indo-Pacifico? 

In virtù di una miriade di possedimenti e annesse zone economiche esclusive negli Oceani Indiano e Pacifico, la Francia sembra farsi carico della proiezione navale nella regione, incluso il Mar Cinese Meridionale.Unitamente a tale proiezione navale, l’Unione immagina contributi soft alla sicurezza regionale che possano anche beneficiare le imprese dei propri stati membri. Ad esempio, l’Ue potrebbe contribuire alla capacità dei diversi paesi del Sudest Asiatico e dell’India attraverso nuovi strumenti preposti alla conoscenza della situazione marittima (Maritime Situational Awareness), al diritto internazionale marittimo, alla lotta alla pirateria o alla cyber sicurezza attraverso aiuti allo sviluppo che beneficino imprese europee. L’Ue e le agenzie per lo sviluppo di Francia e Germania hanno da poco inaugurato un progetto quadriennale Enhancing Security Cooperation in and with Asia, che si inserisce appieno nelle declinazioni economicistiche e di sicurezza dell’ingaggio Ue nell’Indo-Pacifico.

Anche l’Italia sembra muoversi in tal senso?

Iniziative future potrebbero prevedere attività di capacity-building (inclusa la formazione di personale militare o della guardia costiera) e di connettività che giovi le nostre eccellenze, quali gli armamenti a pilotaggio remoto, o la cybersicurezza e la lotta alle organizzazioni criminali. Questa potrebbe essere una strada da intraprendere per il nostro paese, anche in coordinamento con paesi amici quali il Giappone o l’India. Alla luce delle sopraccitate dinamiche competitive e vitalità economica nell’Indo-Pacifico, la domanda per gli armamenti è in piena espansione.  Poiché le commesse e le collaborazioni militari poggiano anche su considerazioni politico-diplomatiche, l’impegno di grandi paesi europei a sostegno della sicurezza marittima (o cyber) di diversi stati del Sudest Asiatico dovrebbe favorire anche le proprie esportazioni. Così, ad esempio, la recente vendita di fregate Leonardo all’Indonesia si inserisce all’interno di un maggiore impegno italiano alla sicurezza regionale.



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