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Wembley, una sfida che vale un riscatto. L’analisi di Malgieri

Il mondo col virus è ovunque. Lo sappiamo bene. Ma per due ore sarà lontano da Wembley. Chissà se dalla fiducia che talvolta il football è in grado di innescare non nasca uno spirito nuovo per affrontare, convivendoci, l’alieno senza farci più molto male, senza avere paura, con scienza e coscienza. E guardando alle magiche evoluzioni di un pallone per sopravvivere alle angosce. L’auspicio di Gennaro Malgieri

Comunque vada, il football ha sconfitto l’alieno. Sfidandolo in lungo e in largo per le contrade della vecchia Europa, il morbo orientale si è annidato da Baku a Londra, da San Pietroburgo a Monaco senza tentare l’assalto più facile. Non ha impaurito, né disorientato. Non ha indotto alla diserzione tifosi da stadio e supporter da piazza; non ha sfiorato il popolo dei vaccinati e neppure quello dei timidi che il farmaco lo hanno per ora stupidamente rifiutato. E sì, le mascherine sono volate nei cieli europei svelando volti fascinosi ed allegri di giovani donne e coloratissimi visi maschili contenti finalmente di cantare i loro inni, mentre il virus cinese nascosto si trasformava da Alfa in Delta, altrove in Gamma e via seguitando con la persecuzione mostruosa e insolente che da un anno e mezzo sopportiamo e sopporteremo nell’unico modo possibile: accettando la sfida con le armi della scienza, della fede, dell’ostinazione, dell’intelligenza e del coraggio. Non rimarremo sotto le macerie: lo sapevamo all’affacciarsi nelle nostre vite dello schifosissimo virus, ne abbiamo avuto conferma in questo mese di passione calcistica che ha seminato nuovi entusiasmi asseverando una verità che pochi avevano fin qui celebrato: con le tragedie si convive, lottando, non assecondandone la brutale forza. E sia quel che sia.

Dal football non una speranza, ma un sorriso, dunque. Che continuerà tra pochi giorni, vogliamo credere, alle Olimpiadi giapponesi. Ed ora, dopo settimane trascorse ad inseguire il pallone dovunque per le strade e gli stadi d’Europa, incuranti ma non inconsapevoli delle possibili incursioni della proteina Spike, niente e nessuno ci toglierà, come in una Arena dell’antichità, il trionfo del calcio continentale che si celebrerà a Wembley, nella Londra europea per quanto non più nell’Unione, ma per noi sempre in Europa. Nello stadio rinato nel 2007, memoria moderna del mitico impianto del 1923 nel quale si consacrò lo sport dei fedeli aristocratici e plebei, dove una grande scuola calcistica si formò e invase due continenti.

Ora le differenze sono sparite. I Tre Leoni giocano come gli Azzurri, e perfino nei più remoti villaggi africani si ciabatta il pallone imitando un modello unico praticato in Sudamerica come nelle vergini praterie del football orientale. È il peggio della globalizzazione che non ci toglierà il piacere, tuttavia, di assaporare domani sera l’inevitabile dolceamaro richiamo, per l’ovvia incertezza dell’esito, di una competizione che perfino di questi tempi ripropone il mito del dominio territoriale in campo simulando una guerra incruenta. E sono i quattro volte campioni del mondo italiani che daranno vita ad una festa allegra e crudele al tempo stesso con gli inglesi che solo una volta, in casa loro, salirono sul tetto del mondo: era il 1966, quando Banks, i fratelli Jack e Bobby Charlton, Moore, Stiles, Hurst, Hunt agguantarono la Coppa Rimet, mentre l’Italia di Edmondo Fabbri conosceva l’inferno calcistico nel quale un dentista coreano, Pak Doo-ik, improvvisato centrocampista, la condannò senza appello.

Sono cinquantacinque anni che la nazionale inglese attende di vincere una finale, di fare il giro di Wembley con un trofeo prestigioso, di passarselo di mano in mano tra Kane, Sterling, Shaw, Maguire. Ed è dal 1968 che l’Italia prova a vincere un Campionato europeo per nazioni, dopo aver disputato tre finali, confida nella quarta. Troppo tempo da recuperare per entrambe le compagini: non sarà una partita come un’altra.

Ecco dove fa capolino il mito. Se due rappresentative nazionali si affrontano non soltanto per affermare un primato continentale, ma per rilanciare una storia, dell’una o dell’altra poco importa, è evidente che ragioni meta-calcistiche domineranno l’incontro. Insomma, non si tratterà di iscrivere nell’albo d’oro il nome di una nazione, ma di aggiungere un pezzo di storia ad una lunga vicenda sportiva che per l’Italia soltanto tre anni fa sembrava destinata alla marginalità chissà per quanto tempo, mentre l’Inghilterra ha ottenuto il piazzamento più ragguardevole, dopo il mondiale ricordato, nel torneo di Nation League (di scarso e discutibile peso) nel 2018 qualificandosi al quarto posto, battuta dal Belgio. Non certo un cammino luminoso dal 1966 pur esprimendo un calcio tutt’altro che disprezzabile ed allineando campioni che hanno illuminato il football inglese oltre che “nutrire” numerose blasonate squadre europee.

L’attuale allenatore inglese Gareth Southgate cerca la rivincita in panchina, dopo aver fallito da calciatore il rigore decisivo contro la Germania nella semifinale che aveva decretato l’eliminazione dell’Inghilterra nel campionato europeo nel 1996. Roberto Mancini intende consolidare la fama che si è guadagnata in tre anni prendendo una nazionale moribonda e portandola fino a Wembley per ricevere l’applauso continentale e lanciarla verso il mondiale invernale del prossimo anno in Qatar.

Ce ne sono di motivi che rendono il match di domenica sera un galà calcistico dai colori smaglianti. Ed il colore più bello, senza italiani (o pochissimi) sugli spalti, sarà quello del pubblico. Rinato almeno per una notte senza la fastidiosa compagnia degli incubi. Il mondo virato è ovunque. Lo sappiamo bene. Ma per due ore sarà lontano da Wembley. Chissà se dalla fiducia che talvolta il football è in grado di innescare non nasca uno spirito nuovo per affrontare, convivendoci, l’alieno senza farci più molto male, senza avere paura, con scienza e coscienza. E guardando alle magiche evoluzioni di un pallone per sopravvivere alle angosce.

(Foto: account Twitter @EURO2020)

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