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La riforma val più della messa in latino. La riflessione di D’Ambrosio

Come ripeteva spesso Mariano Magrassi (1930-2004), vescovo liturgista: “Il Vaticano II è come il treno che cammina su due binari, che, nel caso, sono: la riforma ecclesiale e quella liturgica. Se si toglie un binario il treno deraglia”. Rocco D’Ambrosio sul Motu Proprio di papa Francesco che modifica le norme delle celebrazioni in latino

Papa Francesco ha pubblicato un Motu Proprio che modifica le norme delle celebrazioni in latino: il papa chiede dunque ai vescovi maggiore responsabilità e vigilanza su coloro che chiedono di celebrare la Messa nel rito antico. L’intervento papale si presta a diverse interpretazioni. Riccardo Cristiano (su Formiche.net) ne ha data già una che si riferisce alla sfera del dialogo interreligioso; ce ne potrebbe essere anche una lettura liturgica; mi soffermo, invece, su quella istituzionale-ecclesiale. In sintesi: la scelta altamente restrittiva per l’utilizzo del latino (con relativo messale preconciliare del 1962) pone un tassello importante nel cammino di riforma proposto dall’attuale pontefice.

Leggendo il testo papale mi è venuta in mente una frase che Mariano Magrassi (1930-2004), vescovo liturgista, ripeteva spesso: “Il Vaticano II è come il treno che cammina su due binari, che, nel caso, sono: la riforma ecclesiale e quella liturgica. Se si toglie un binario il treno deraglia”. Il timore di un “deragliamento” sembra emergere quando Francesco fa riferimento alle risposte a un questionario sul problema. “Le risposte pervenute – scrive il papa – hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire”. In altri termini è in gioco il problema della validità, accettazione e attuazione del Vaticano II: non si può “dubitare del Concilio”, taglia corto il papa. E il discorso non fa una grinza: “È sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la ‘vera Chiesa’. Si tratta di un comportamento che contraddice la comunione, alimentando quella spinta alla divisione”.

Ora l’attenzione va posta, ancora una volta, sul Concilio e la sua attuazione. Per farlo non c’è bisogno di creare partiti, fazioni o correnti. Per farlo bisogna accettare il Vaticano II come punto di non ritorno del cammino secolare della Chiesa cattolica; nelle parole del papa il Concilio “ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile” (La Civiltà Cattolica III: 449-552).

La lettura evangelica, attualizzata dal Vaticano II, è quindi il criterio per valutare questo intervento, come, del resto, tutto il pontificato. Ovviamente per chi crede in un modello di vita cristiana e di Chiesa preconciliari riterrà la riforma di Francesco, a seconda dei casi, eretica, inconsistente, sprovveduta e via discorrendo. Per chi crede nel nella lettura evangelica del Vaticano II cercherà di valutare la riforma di Francesco spostando l’attenzione sui contenuti annunciati e incarnati, più che la persona del papa, il quale, come ogni essere umano, e come ogni leader, ha pregi e limiti.

La lettera si conclude con riferimenti a “parrocchie personali, legate più al desiderio e alla volontà di singoli presbiteri…”; abusi rituali, mancanza di decoro e fedeltà ai testi ufficiali, eccentricità dei celebranti. Anche qui il discorso è molto più ampio del riduttivo “latino sì, latino no”, ma è l’impegno a rinnovarsi nello spirito del Concilio, al di là delle esperienze personali e comunitarie, mettendo in crisi un diffuso modello reazionario e integralista di Chiesa. Sinteticamente mi riferisco, almeno in Italia, a un modello che sembra avere molte certezze e pochi dubbi; che insiste solo su alcuni temi morali e trascura altri, che ricerca la maggioranza numerica e la preminenza culturale; che tende ad accrescere privilegi e sussidi statali; che non è molto vigile su degenerazioni del potere e corruzione; che si organizza in maniera molto gerarchizzata e clericalizzata; che forma male e promuove poco il laicato.

L’accoglienza di questi temi richiede, in molti casi un cambiamento radicale, o, come ha spiegato il pontefice, un frantumare alcuni schemi consolidati. “Dio rompe gli schemi – ha detto in un incontro con dei lavoratori. E se noi non abbiamo il coraggio di rompere gli schemi, mai andremo avanti perché il nostro Dio ci spinge a questo: a essere creativi sul futuro” (5 luglio 2014).

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