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Perché Unifil è ancora cruciale. Scrive Checchia, già ambasciatore a Beirut

Di Gabriele Checchia

Quale spazio per l’Italia, che da sempre gode di diffusa simpatia e stima, in Libano? L’analisi di Gabriele Checchia, già ambasciatore d’Italia a Beirut, in tre articoli. Ecco il terzo e ultimo

(Qui puoi leggere il primo articolo, qui il secondo)

Anche sul secondo versante, quello delle implicazioni regionali della crisi libanese, le criticità decisamente non mancano. Criticità che vanno, per non citarne che alcune, dal già citato massiccio afflusso negli ultimi anni di profughi siriani, mal tollerati buona parte della popolazione, e costretti a vivere in condizioni sovente al limite di ciò che è umanamente accettabile, specie per i tanti minori, in campi di fortuna; alla presenza più antica, ma pur sempre fonte di contrasti, di non meno di mezzo milione di rifugiati palestinesi; alla perdurante assenza di un accordo di pace (sostitutiva della convenzione armistiziale del marzo 1949) del Libano con il vicino israeliano; al rapporto “organico”, infine, che Hezbollah – tanto nella sua componente politica che in quella militare (ammesso e non concesso che tale distinzione abbia un senso) – continua a intrattenere con la teocrazia iraniana e con il rinvigorito regime alawita.

Per quanto concerne la relazione con lo Stato ebraico va registrato con qualche preoccupazione: il lancio nei giorni scorsi di razzi dal sud del Libano verso il Nord di Israele con l’inevitabile risposta a stretto giro delle Forze di difesa israeliane (anche se va detto, da parte israeliana, si è questa voluto attribuire la responsabilità dell’accaduto a “estremisti palestinesi operanti dal Libano” e non a Hezbollah, come in genere avviene, forse per non aggravare ulteriormente una situazione già tesa con Teheran) nonché, potenzialmente ancor più inquietante, il recente riacutizzarsi della tensione tra le due capitali sugli a tutt’oggi non delimitati confini marittimi. In particolare un’area di 860 chilometri quadrati ricca di idrocarburi nelle scorse settimane rivendicata dal Libano, con decreto a firma di quel µinistro dell’Energia, come parte della propria Zona economica esclusiva: a più di 8 mesi dall’ultima tornata dei sinora infruttuosi colloqui bilaterali sul tema dei confini marittimi con mediazione statunitense e coinvolgimento onusiani.

Hezbollah resta in ogni caso attore imprescindibile nelle vicende interne del Paese (anche per la speciale attenzione di cui il movimento sciita continua a godere da parte del presidente Aoun e del suo partito, centrale negli assetti di governo). E sempre più in grado di dettarne l’agenda anche sul piano regionale impedendo, alle componenti della dirigenza libanese non pregiudizialmente ostili al riguardo, di recuperare una qualche autonomia di indirizzo per quanto riguarda ad esempio e relazioni con Tel Aviv attraverso segnali distensivi che verrebbero con ogni probabilità ricambiati. La sensazione di un Partito di Dio dominus della scena libanese sembra essere in ogni caso all’origine delle voci che in queste settimane si registrano a Beirut secondo le quali Hezbollah (a oggi intransigente difensore di uno status quo a lui complessivamente favorevole) starebbe cominciando a prendere per la prima volta in esame l’ipotesi di alcuni cambiamenti costituzionali – in cambio di sue concessioni tutte da definire – suscettibili di accrescerne ulteriormente la capacità di condizionamento. Vi è così chi parla di una modifica della Costituzione che contemplerebbe una presidenza della Repubblica a rotazione (dunque non più necessariamente in capo a un esponente maronita, ma aperta anche a figure espressione della comunità sciita) o, ancora, della introduzione della carica di vice capo dello Stato da assegnare, appunto, a uno sciita che dovrebbe naturalmente avere l’avallo di Hezbollah (oltre che dell’altro e più moderato partito sciita, Amal, guidato dall’inossidabile presidente del Parlamento Nabih Berri).

Si tratta naturalmente al momento solo di speculazioni pur se riprese da analisti di vaglia. Esse riflettono in ogni caso un clima complessivo che vede, mi sembra, una Repubblica Islamica dell’Iran tutt’altro che sulla difensiva e intenzionata ad avvalersi con immutata determinazione dei suoi proxy in Libano (e nella regione).

Ecco perché sarebbe a mio avviso un errore da parte dell’amministrazione Biden – ove essa, come tutto lascia ritenere, intenda fattivamente scongiurare lo scenario di un Libano irreversibilmente assorbito nell’orbita siro-iraniana – lasciar cadere l’obiettivo, a suo tempo prefissosi dalla presidenza Trump, di inserire in un eventuale accordo nucleare Jcpoa rivisitato (e i negoziati tra le parti, seppur indiretti, continuano a Vienna) una clausola che in qualche modo vincoli Teheran a comportamenti meno destabilizzanti nello scacchiere nonché all’utilizzo, per finalità di miglioramento delle condizioni di vita del popolo iraniano – ciò che non è sinora avvenuto – dei fondi che dovessero rendersi disponibili a seguito di un alleggerimento delle sanzioni se mai ciò avverrà.

Un accenno, infine, alla presenza del nostro Paese che da sempre gode di diffusa simpatia e stima, tanto a livello di classe dirigente che di opinione pubblica, presso tutte le componenti del variegato mosaico libanese. È posizione di prima linea, tra gli amici del Libano, della quale possiamo essere fieri le cui radici affondano nella storia recente (a cominciare dallo straordinario credito di immagine da noi maturato sin dall’epoca del dispiegamento nel Paese, in un’ottica di peace-keeping, della Forza multinazionale di pace all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, nel pieno degli scontri tra contrapposte fazioni) e meno recente: basti pensare ai secolari, e tuttora vivi e fecondi, rapporti tra i maroniti e la Chiesa di Roma e indirettamente l’Italia. Un insieme di fattori ai quali è venuto ad aggiungersi, a partire dal 1978, il ruolo di primo piano svolto dall’Italia in ambito Unifil consolidatosi con il quasi ininterrotto esercizio del comando da parte italiana con propri ufficiali, a partire dal 2006, di Unifil II. Tutto ciò – in aggiunta alla nostra tradizionale e apprezzata azione diplomatica a sostegno della stabilità del Paese e agli importanti fondi investiti in Libano, nel corso degli ultimi 20 anni, dalla nostra cooperazione allo sviluppo a beneficio delle aree e comunità del Paese maggiormente bisognose di aiuti – conferisce alla voce dell’Italia, e del nostro capoissione a Beirut, una particolare autorevolezza. Sotto tale profilo sarebbe a mio avviso auspicabile, ma forse sta già avvenendo, che l’Italia possa essere strettamente associata alle consultazioni in atto a livello ambasciatori di Francia e Stati Uniti – sulla scia della concertazione avviata al riguardo dal segretario di Stato americano Antony Blinken con l’omologo francese Le Drian – al fine, tra l’altro, di un contenimento delle mire e ambizioni di Stati terzi sul Paese dei Cedri a cominciare da quelle iraniane.

Quanto a Unifil II, attualmente guidata dal nostro generale Stefano Del Col, trattasi di imprescindibile forza di interposizione e di assistenza alle Forze armate libanesi (una delle poche espressioni di quella “statualità” che ancora gode di ampio sostegno e rispetto presso tutte le fasce della popolazione locale) nella messa in atto della Risoluzione 1701 adottata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ai fini di un durevole cessate il fuoco e di un recupero di controllo delle Forze armate libanesi sull’intero territorio nazionale, l’11 agosto 2006.

In sostanziale coincidenza, cioè, con la conclusione dell’ultimo conflitto Israele-Hezbollah (noto come Guerra dei 33 giorni). Forza di interposizione, che vede l’Italia tutt’oggi tra i principali contributori di uomini e mezzi e il primo tra i Paesi occidentali, il cui apporto alla stabilità dell’area – dall’autunno 2006 a oggi – si è in più occasioni rivelato fondamentale. E che si esplicita, come noto, con varie modalità: da una competenza esclusiva nella demarcazione della Blue Line, al costruttivo rapporto mantenuto con i sindaci delle varie municipalità, per lo più a guida sciita, del Libano meridionale, alla preziosa funzione di unico foro all’interno del quale hanno oggi modo di confrontarsi periodicamente ufficiali libanesi e israeliani attraverso le cosiddette sessioni di “dialogo tripartito”, presiedute dal comandante di Unifil. Sessioni di dialogo volte a favorire la risoluzione di non infrequenti contrasti su aspetti specifici ma anche una disamina congiunta, quanto mai necessaria, di tematiche di più ampia portata comunque rilevanti per la corretta messa in atto della Risoluzione 1701.

Mi sia consentito chiudere, a conferma di quanto precede, su una notazione di carattere personale. Tra i miei ricordi di capomissione a Beirut (2006-2010) spicca quello della crescita esponenziale della tensione nel Sud del Paese – area di dispiegamento di Unifil ma anche a capillare presenza e diffuso controllo di Hezbollah – allorché Israele lanciò nel dicembre 2008 l’operazione Piombo fuso in risposta ai ripetuti lanci di razzi da parte di Hamas. Continuo a ritenere che in quella occasione furono solo la presenza e i chiari segnali dissuasivi lanciati da Unifil guidata all’epoca dal generale Claudio Graziano – oggi presidente del Comitato militare dell’Unione europea – a evitare che lo “sciita” Hezbollah intervenisse con la sua potenza di fuoco a sostegno dell’alleato “sunnita” Hamas con conseguenze che sarebbero state verosimilmente devastanti per l’intera regione. Una missione dunque quella di Unifil, opportunamente rifinanziata dal nostro Parlamento con il più recente decreto Missioni, che continua ad apparire a chi scrive indispensabile in uno scacchiere mediorientale che resta altamente volatile ed esposto ai più diversi venti di crisi alimentati sovente da tensioni più sottotraccia e non direttamente riconducibili ( come quelle relative al nucleare iraniano) al geograficamente piccolo Libano.

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