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Vi spiego di che cosa ha bisogno la Libia. Parla Gritli (Airl)

Hasan Gritli, imprenditore libico residente in Italia e membro della Airl, Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, racconta le esigenze del Paese che si appresta ad una possibile normalizzazione istituzionale

“La Libia non è solo terreno di business e interesse, ma principalmente è un paese molto amico dell’Italia, gravato da mille emergenze. Mi auguro si lavori per rispondere alle esigenze dell’uomo della strada, come cibo e luce”.

Lo dice a Formiche.net l’ing. Hasan Gritli, imprenditore libico, di origine cretese, residente in Italia e membro della AIRL Onlus, Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, che in questa conversazione affronta i temi relativi alle esigenze del paese che si appresta ad una possibile normalizzazione istituzionale, prima delle urne previste in dicembre con un invito all’Italia: si intesti la formazione professionale dei giovani libici.

A Tripoli va in scena il Libya Construction Expo, ospitato presso la Fiera cittadina. La prima occasione di un evento internazionale con scambi e relazioni: molto attive le delegazioni di Italia, Turchia e Tunisia. Che segnale è per il nuovo corso libico?

Mi sembra molto strano che in un momento come questo di fortissima crisi si pianifichi un evento senza aver prima vidimato il nostro budget di spesa. All’interno del paese vi sono gravi problemi di quotidiana tenuta, come le prime necessità per il popolo libico: mi riferisco alla mancanza di energia elettrica. In Libia si vuole fare a tutti costi del business, senza risolvere i problemi reali.

Ovvero?

Manca la luce ogni giorno dalle otto alle dieci ore, con i conseguenti disagi relativi alla mancanza di acqua e condizionatori le cui pompe sono appunto elettriche. Il paese dovrebbe prima risolvere queste emergenze e poi lavorare sulle relazioni internazionali. Non ha senso fare una gara a chi arriva per primo in Libia. Ricordo che la popolazione libica ha sempre dato fiducia a chiunque volesse trovare una soluzione alle proprie esigenze, ma oggi non può esserci una bacchetta magica per risolvere i molteplici problemi sul campo.

Lei ha operato per molti anni nel settore sanitario e socio-assistenziale tra Italia e Libia: quale il senso della collaborazione presente e futura tra i due paesi?

L’Ambasciata italiana ha appena donato dei generatori nel sud della Libia, in quelle località che non dispongono di energia elettrica. E’stato solo grazie alla vostra Ambasciata, e non al governo attuale, che si è provato a risolvere minimamente tale problema. Invece di provvedere ad una necessità primaria come l’energia, l’attuale classe dirigente organizza una fiera. Non lo comprendo. Il problema non verte i rapporti con l’estero, ma quelli interni che sono marci.

E nel passato?

L’Italia è e resta il nostro primo interlocutore e anche amico naturale e storico. Il nostro passato di relazioni con l’Italia è datato anche prima del 1969, anno di svolta per la politica libica. In Libia tutte le comunità vivevano in pace: cattolica, ebraica, musulmana. Tutti si rispettavano reciprocamente, anche in occasione delle diverse festività a cui prendevano parte, coinvolgendo amici di fede diversa. Ricordo il Corpus Domini, che era una festa per tutti. La Libia era un paese libero, non condizionato dalle diversità etniche: era una convivenza naturale. Ricordo benissimo il macellaio cattolico, quello ebraico e quello islamico: c’era anche la vendita del maiale e di alcolici. Vi era anche una pregevole birra, fatta da un tedesco che si era trasferito in Libia, oltre alle industrie conserviere e a calzaturifici. C’era attività. C’era cultura. Ciò per sottolineare il clima positivo che esisteva.

Poi?

La comunità ebraica ha purtroppo forzatamente lasciato la Libia in concomitanza della Guerra dei Sei Giorni, quella italiana fu invitata ad andar via nel 1970, creando un vuoto socio-economico preciso. Da quel momento il paese si è trovato completamente nudo, senza la struttura della vera economia. Re Idris lasciò la Libia pacificamente, ma poi…

Istruire i giovani libici oggi sarebbe utile, da un lato, per intercettare le esigenze delle imprese che lavoreranno alla ricostruzione del paese e, dall’altro, per dare una strada alle giovani generazioni libiche. Chi potrebbe intestarsi quella missione?

La tecnologia ha abbattuto tutte le vecchie barriere che c’erano in passato. Mi piacerebbe poter avvicinare le due sponde, italiana e libica, proprio nel settore formativo che è vitale. Così si offrirebbe ai giovani libici la possibilità di vivere come gli altri “vicini” e anche dare la possibiità ai giovani italiani di conoscere un paese di cui poco sanno. In Italia esiste una fortissima comunità di libici arabi che, pur trovandosi benissimo nel vostro paese, ha sempre nel cuore il loro. Nell’ospedale Bambino Gesù di Roma sono ricoverati moltissimi bambini libici e i loro genitori li lasciano volentieri in quelle strutture perché fiduciosi sul fatto che quei piccoli avranno dignità, cure e dedizione. E’proprio grazie all’Italia che ciò è possibile.

Quale la prima azione di cooperazione da adottare?

In Libia c’è un ospedale che è degno dell’Umberto I, si trova in pieno centro di Tripoli. Mi chiedo perché non venga rimesso in sesto al più presto, al fine di offrire ristoro ai cittadini libici. Sarebbe un grande gesto, molto più urgente di accordi e visite all’estero. Mi auguro si lavori per rispondere alle esigenze dell’uomo della strada come cibo e luce: penso alle donne rimaste vedove dai conflitti andati in scena dal 2011 ad oggi, o ai cittadini in fila per ore intere dinanzi alle banche dalla notte inoltrata per ottenere il proprio denaro, o a quei ragazzini dagli arti amputati che non hanno un futuro. Nessuno parla dei problemi umanitari della Libia.

twitter@FDepalo

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