In generale, i critici lamentano che il blocco dei licenziamenti – sia pure con deroghe – vada verso la conclusione, ma soprattutto – credendo di aver scoperto, appunto, l’acqua calda – svelano l’arcano contenuto nell’avviso. Non si tratta di obblighi, ma solo di raccomandazioni. Le imprese non sono tenute ad adempiere. Ma i sindacati dove stanno? Si accontentano solo di un ruolo di spettatori?
L’avviso comune sul superamento del blocco dei licenziamenti, sottoscritto dal governo (nelle persone del premier e del ministro del Lavoro) e dalle parti sociali si è in breve trasformato in una sorta di Campionato delle barbe finte, a cui hanno preso parte su fronti opposti, sia i difensori che i critici dell’avviso stesso. Prima di spiegare lo svolgimento di questo Festival dell’Ipocrisia, di questa competizione per ottenere il brevetto di inventori dell’acqua calda, è il caso di leggere le poche righe del testo.
“Le parti sociali alla luce della soluzione proposta dal Governo sul superamento del blocco dei licenziamenti, si impegnano a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali che la legislazione vigente ed il decreto legge in approvazione prevedono in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Auspicano e si impegnano, sulla base di principi condivisi, ad una pronta e rapida conclusione della riforma degli ammortizzatori sociali, all’avvio delle politiche attive e dei processi di formazione permanente e continua”.
“Il risultato c’è – ha spiegato Maurizio Landini, divenuto ormai un primus inter pares tra il segretari generali delle confederazioni – ed è frutto dell’unità sindacale e della mobilitazione dei lavoratori. Lo avevamo detto: uniti avremmo portato avanti l’iniziativa fino al risultato”.
A stretto giro di posta il leader della Cgil ha dovuto incassare un duro rimprovero di un suo predecessore, quel Sergio Cofferati che, da segretario della Cgil, in occasione di ben due governi da lui presieduti, fece vedere i sorci verdi a Silvio Berlusconi, attraverso oceaniche mobilitazioni che, in seguito, non si sono mai più viste invadere le strade di Roma. Il “Cinese” non ha usato, verso il nuovo titolare della “ditta”, la buona creanza dell’ex; ma, con ben poca diplomazia, ha definito l’intesa come una presa in giro.
La stessa reazione si è riscontrata – basta leggere un articolo del fedelissimo Alfonso Gianni – negli ambienti vicini ad un altro grande ex della Cgil, come Fausto Bertinotti. È certo comunque che non si tratta di pensionati buontemponi che rivendicano il “quando c’ero io”, ma degli interpreti di uno “scontento” molto diffuso all’interno della sinistra politica e sindacale.
In effetti – se lo si guarda da un certo punto di vista – l’avviso non è un granché. Potremmo definirlo un gentlemen agreement che ricorda alle parti sociali i principi di relazioni industriali corrette, potremmo dire persino entrate a far parte della normale prassi. È abbastanza normale che le aziende prima di licenziare concordino con i sindacati procedure alternative previste dalla legge (dalla Cig ai contratti di solidarietà; dai contratti di espansione agli scivoli verso il pensionamento). Accompagnare questi consueti comportamenti con una raccomandazione sostenuta anche dal governo è come una spruzzata di borotalco dopo il bagno; se ne può fare a meno, ma è confortevole.
Certo aver preteso di congelare per quasi 500 giorni gli organici, non è stato di incoraggiamento a cercare per tempo soluzioni alternative. Le proroghe del blocco toglievano il pensiero ai sindacati, mentre gli imprenditori erano nella impossibilità di programmare un riassetto degli organici rispetto alle nuove caratteristiche del mercato.
In queste ore, poi, ci capita di leggere articoli e servizi, i cui autori si stupiscono perché il primo giorno di luglio non sono arrivate a destinazione centinaia di migliaia di lettere di licenziamento. Si vede che si erano abituati alla “normalità” del blocco dimenticando che i licenziamenti collettivi hanno l’obbligo di seguire una procedura di confronto intersindacale, scandita nei tempi e nelle modalità operative secondo precise norme di legge; i licenziamenti individuali per motivi oggettivi possono sempre essere impugnati in giudizio e, in talune fattispecie, il giudice può ordinare la reintegra. Sembra che anche un ex sindacalista d’antan come Sergio Cofferati abbia dimenticato la materia, visto che in una intervista a Il Fatto quotidiano esprime critiche davvero ingenerose nei confronti del jobs act (il capolavoro del “rinnegato Kautsky” della sinistra italiana) e – lasciando di stucco coloro che lo hanno conosciuto in tempi migliori – confessa una simpatia senile per i Cobas ed invita la Cgil a ricercare con loro un dialogo.
In generale, i critici lamentano che il blocco dei licenziamenti – sia pure con deroghe – vada verso la conclusione, ma soprattutto – credendo di aver scoperto, appunto, l’acqua calda – svelano l’arcano contenuto nell’avviso. Non si tratta di obblighi, ma solo di raccomandazioni. Le imprese non sono tenute ad adempiere. Ma i sindacati dove stanno? Si accontentano solo di un ruolo di spettatori? Poi – diciamoci la verità – non crederanno venuto il momento di imporre per legge quanto un management di una impresa è tenuto a fare e a non fare nel gestire il proprio organico?