Skip to main content

Pandemia e cambiamento climatico. Due emergenze collegate?

Anche se non si è raggiunto un consenso scientifico unanime sulle possibili interrelazioni tra pandemia e cambiamento climatico, studi qualificati dimostrano che l’innalzamento medio delle temperature globali aumenta la capacità di diffusione del virus, anche a causa dell’aumento delle precipitazioni e del tasso medio di umidità, fattori questi ultimi che stimolano la vitalità virale e le sue capacità di resistenza

Esiste una correlazione tra pandemia da Covid 19 e cambiamento climatico?

Apparentemente no. Il virus dovrebbe indebolirsi con le alte temperature e, a differenza di quanto avviene nei mesi invernali quando la gente sta maggiormente in ambienti chiusi (circostanza questa che favorisce i contagi), d’estate le persone tendono a stare di più all’aperto o in locali costantemente arieggiati ed essere quindi meno esposte all’aggressione virale.

Uno studio del Massachusetts Institute of Technology dimostra che un clima mite dovrebbe inibire la vitalità del virus, ma la diffusione dei casi nell’emisfero meridionale dimostra che questo agente patogeno è più resistente al calore rispetto ai virus dell’influenza “tradizionale”.

Adesso, con la cosiddetta “variante delta”, il numero dei contagi sembra in risalita in tutta Europa, segno che il virus mantiene la propria aggressività anche in presenza di temperature elevate.

In realtà, a parere di molti studiosi, la pandemia che ha causato una crisi di proporzioni mondiali può essere messa in relazione al cambiamento climatico nella misura in cui quest’ultimo è collegato all’innalzamento dei tassi di inquinamento provocato dall’uso spropositato di fonti di energia non rinnovabile (petrolio e carbone, in primis).

L’inquinamento atmosferico, a sua volta, provoca, specie nei soggetti più deboli che rappresentano il 90% delle vittime da Covid 19, danni all’apparato respiratorio, danni che possono ritenersi corresponsabili delle conseguenze letali della sindrome influenzale.

Nell’agosto del 2020 gli studiosi che hanno partecipato al Congresso sul rapporto tra i “fattori climatici, metereologici e ambientali e la pandemia da Covid-19” organizzato dalla Wmo (World Meteorological Organization) sono giunti alla conclusione che la pandemia “riflette lo stato di tensione tra uomo e natura”.

Secondo molti dei ricercatori che hanno partecipato al Congresso del Wmo, le conseguenze più gravi dell’infezione da Covid-19 si sono manifestate in pazienti esposti con maggiore frequenza all’atmosfera inquinata da anidride carbonica.

Anche se non si è raggiunto un consenso scientifico unanime sulle possibili interrelazioni tra pandemia e cambiamento climatico, studi qualificati dimostrano che l’innalzamento medio delle temperature globali aumenta la capacità di diffusione del virus, anche a causa dell’aumento delle precipitazioni e del tasso medio di umidità, fattori questi ultimi che stimolano la vitalità virale e le sue capacità di resistenza.

Secondo il “Quinto rapporto di valutazione” dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) l’aumento medio delle temperature e delle precipitazioni ha alterato la distribuzione e la diffusione di vettori patogeni e questi fattori, collegati alla maggiore mobilità della popolazione e ai cambiamenti di habitat di alcune specie animali (come i pipistrelli) provocati dall’uomo, possono essere ritenuti corresponsabili della velocità con la quale il virus Covid-19 si è manifestato in tutti i continenti, in particolare nelle aree nelle quali sono più alti i livelli di industrializzazione e di inquinamento atmosferico da CO2.

A causa dell’impatto della pandemia sulla produzione industriale e sull’economia globale, il tasso di inquinamento è, in generale, diminuito anche perché la brusca frenata imposta a produzione e consumi ha di fatto contribuito alla diminuzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera che, solo in Cina, nel primo quadrimestre del 2020 sono diminuite del 10,3%, mentre a livello mondiale la decrescita si è attestata sul 5,8%.

Ora, grazie anche al successo della campagna vaccinale che in Europa sta raggiungendo livelli accettabili per la sicurezza collettiva, molti Paesi, come il nostro, si apprestano a costruire la ripresa dell’economia, dissestata dagli effetti della pandemia con un nuovo slancio produttivo che, come evidenziato nei lavori del recente G20 di Venezia, dovrà partire da un nuovo impegno nella produzione di energia con fonti rinnovabili e con la progressiva e marcata diminuzione dell’uso di fonti inquinanti, come il petrolio e il carbone.

La pandemia, che come abbiamo visto ha provocato tra tanti guasti almeno l’effetto collaterale positivo della diminuzione delle emissioni di carbonio nell’atmosfera, può essere l’occasione per un nuovo “rinascimento energetico”, destinato a durare nel tempo e a rendere i modelli di produzione più compatibili con l’ambiente e, di riflesso, con la salute pubblica.

Protagoniste di questo cambio di paradigma della produzione industriale saranno le fonti di energia rinnovabile e tra queste l’energia marina e l’idrogeno.

Nell’agosto dello scorso anno l’Unione Europea, nell’ambito dell’ambizioso programma di sviluppo denominato “European Green Deal”, ha varato una vera e propria “Strategia dell’Idrogeno” nella quale si sottolinea che l’idrogeno “pulito” (quello estratto dalle acque con l’elettrolisi) deve essere parte integrante della transizione ecologica prevista e finanziata dal “Recovery Plan” con l’obbiettivo a brevissimo termine di produrre entro il 2024 6 GW annui di energia “verde” a partire dall’Idrogeno da elettrolisi.

Anche la Cina si sta muovendo concretamente in questa direzione, grazie non solo all’impegno assunto dal Presidente Xi Jinping anche in sede di G20 di diminuire drasticamente le emissioni di carbonio entro il 2030 nel rispetto degli Accordi di Parigi del 2012, ma anche al lavoro del giovanissimo ministro Lu Hao che dirige un dicastero che raggruppa ben sei precedenti ministeri e che è in prima linea nella strategia di riconversione ecologica di tutto il sistema produttivo cinese.

Questa strategia prevede il più ampio ricorso all’energia prodotta dalle onde e dalle correnti marine ed è nel suo ambito che il ministro Lu Hao ha disposto la creazione, a Shenzen, del “National Ocean Techonolgy Centre” (NOTC) un centro di studio e di realizzazione di tecnologie d’avanguardia per la produzione di energia “verde” dalle maree, energia abbondante e pulita che potrà essere ampiamente utilizzata per la produzione di Idrogeno. Quest’ultima, infatti, richiede grandi quantità di elettricità che se prodotta con il ricorso a sistemi tradizionali, come il petrolio o il carbone, non contribuisce a migliorare le condizioni dell’ambiente.

Con l’uso di energia marina per attivare le celle elettrolitiche necessarie a “staccare” l’idrogeno dall’ossigeno si crea in sostanza un ciclo di produzione “virtuoso” estraendo dall’acqua l’Idrogeno con energia fornita “a chilometro zero” dall’acqua stessa.

Si possono produrre correnti elettriche dal mare con dei convertitori di energia, con estrattori di energia dalle maree, con dei convertitori termici che sfruttano le differenze di temperatura alle varie profondità e con strumenti in grado di sfruttare addirittura le differenze di salinità.

Con queste tecniche si potranno estrarre enormi quantità di energia senza alcun danno all’ambiente o alla flora e alla fauna dei mari e si diminuiranno di miliardi di tonnellate le emissioni di CO2 nell’atmosfera.

Non si tratta di fantascienza ma di una realtà concreta: ogni oceano ha una stabile sovrabbondanza potenziale di energia estraibile da onde, correnti e maree, un’energia dai costi più bassi rispetto a quelli delle altre rinnovabili.

Anche il Mediterraneo è da ritenersi una eccellente fonte potenziale di energia marina.

L’Eni ha già messo in opera a Ravenna l’”Inertial Wave Converter”, un convertitore di energia dalle onde progettato per estrarre 50 GigaWatt dal moto ciclico di onde, correnti e maree.

L’Italia insieme alla Scandinavia è leader europeo nella ricerca e applicazione pratica di queste tecnologie e nella loro utilizzazione nella produzione di Idrogeno con l’elettrolisi, con un progetto pilota ancorato nello stretto di Messina.

In tutto il mondo, con la Cina in prima fila, sono attivi in questo momento, oltre cinquanta progetti di ricerca e produzione di energia pulita dalle acque del mare, parte dei quali dedicata alla successiva produzione di idrogeno verde. Insomma progetti questi, tutti dedicati a ricostruire un rapporto tra uomo e natura che, lungi dal vagheggiare una “decrescita felice”, mira a realizzare un modello di sviluppo che sia compatibile con le esigenze di produzione ma anche con la necessità ineludibile di una “svolta verde”.

Stiamo uscendo da una gravissima crisi sanitaria ed economica provocata da una pandemia che, come sostengono autorevoli ricerche scientifiche, è stata resa più diffusiva e letale dal cambiamento climatico e dall’inquinamento ambientale.

Se, come è lecito prevedere, dovesse, di qui a qualche anno, scoppiare un nuovo evento pandemico sarà bene che il mondo si faccia trovare preparato, avendo reso l’ecosistema più salubre e pulito nella prospettiva di ostacolare la diffusione dei nuovi virus con una strategia globale di prevenzione anche ambientale e climatica.

 



×

Iscriviti alla newsletter