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Partiti deboli e leader problematici. Il caso Grillo-Conte visto da D’Ambrosio

Lo scontro tra Grillo e Conte ha una portata che supera il confine del movimento-partito M5S. Perché rappresenta l’epilogo di uno dei tanti partiti e movimenti politici con una fortissima impostazione di leadership di tipo monocratico e autoreferenziale. La riflessione di Rocco D’Ambrosio

Lo scontro tra Grillo e Conte ha una portata che supera il confine del movimento-partito M5S: esso rappresenta l’epilogo di uno dei tanti partiti e movimenti politici con una fortissima impostazione di leadership di tipo monocratico e autoreferenziale. Sin dalla comparsa politica di Berlusconi i partiti hanno iniziato a concentrarsi e dipendere più dal leader che dalla struttura e organizzazione del partito; più dalle risorse (personali, economiche e politiche) del capo che dai principi etici e dal programma del partito. L’esempio lampante è quello della maggioranza dei simboli (tranne pochissime eccezioni) che ormai sono “disegnati” intorno al nome del leader. Ma non è solo un problema di stemma è, soprattutto, un problema di sostanza.

Dalla dissoluzione dei grandi partiti – come la Dc, il Pci e il Psi per citare i maggiori – le formazioni politiche sono entrate in una crisi che li ha portate ad essere poco rappresentative del Paese reale, scarsamente capaci di elaborare programmi di spessore e frequentemente irretite da corruzione e criminalità organizzata. I partiti nazionali sono per lo più lontani dal Paese e ripiegati su stessi.

Difendono una legge elettorale anticostituzionale per cui pochi leader “nominano” il Parlamento determinano le scelte di un Paese, dettano la linea politica e mortificano l’opposizione interna. Anche i due esperimenti italiani, che dovevano proporre un nuovo modello di partito e, quindi, catalizzare consensi e creare rappresentanza politica, come il partito-azienda di Berlusconi e il movimento di Grillo e dei Casaleggio, sono in crisi per carenza di democraticità interna, leadership invasive, creazioni di corti, centralizzazione delle scelte. E la tristezza è che gli altri partiti, chi più chi meno, invece di combattere queste derive spesso le hanno imitate.

La Costituzione afferma: “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49). Il metodo democratico non è un optional: è fatto di tesseramento reale, sedi a ogni livello, dibattito, congressi votazioni ed elezioni interne (fisiche non su piattaforma, per giunta non certificata), strumenti di controllo politico ed etico, gruppi di elaborazione politica, centri studi (per studiare di più e presenziare meno i social), capacità di stare nell’opposizione interna e costruire, senza uscire per fondare l’ennesimo partitino. Ci mancano partiti di questo tipo. Non sono affatto passati di moda, vanno solo migliorati, non distrutti.

L’indebolimento dei partiti ha creato un vuoto politico, che è stato appaltato, correttamente o meno, da leader che sono la negazione della democraticità dei partiti perché sono, nella maggior dei casi, autoreferenziali. Discorso complesso. Sinteticamente si potrebbe dire che, così come oggi è spesso concepita, l’autoreferenzialità è il chiudersi a qualsiasi confronto con altri, per cui il soggetto finisce con il dipendere esclusivamente dalla propria struttura cognitiva, emotiva e valutativa.

Si tratta di un atteggiamento criticabile sotto diversi punti di vista. Esso è, prima di tutto, una negazione della propria natura relazionale (l’aristotelico zôon politikòn). Inoltre, rappresenta un ripiegamento su se stessi che, talvolta, può divenire contiguo a patologie, quali il narcisismo e il solipsismo. È un atteggiamento diffuso, riscontrabile in tutti gli strati sociali; tuttavia, come spiega Kets de Vries, essa sembra radicarsi particolarmente tra i leader in quanto le posizioni di potere stimolano eccessivi processi narcisistici.

Quando in una realtà istituzionale, laica o religiosa che sia, si conferisce un potere a qualcuno, lo si espone a processi che potrebbero, volutamente o meno, accrescere il narcisismo dell’interessato e praticamente amplificare quella vanità così connaturale. E se i partiti non funzionano adeguatamente, in primis con principi etici fermi e procedure democratiche chiare, essi finiscono per favorire queste storture attitudinali che hanno terribili conseguenze sia sul piano personale che politico e istituzionale.

Un primo indice da monitorare, al fine di verificare il grado di autoreferenzialità, è quello della vanità. Essa è un problema che si presenta ogni giorno e ogni ora, è un nemico del tutto ordinario e fin troppo umano. Inoltre, quando si unisce all’aspirazione al potere, causa terribili danni.

Infatti, chi detiene un potere ed è già di suo vanitoso, finisce con il desiderare sempre più potere. Chi con vanità aspira al potere, sempre e comunque, prima di tutto, perde di concretezza e, secondo, si irretisce in forme di autoincensamento puramente personale, invece di condurre e realizzare responsabilmente la propria missione.

La vanità induce fortemente il politico alla tentazione di percorrere o la via della mancanza di concretezza o quella della mancanza di responsabilità, o entrambi (Max Weber). Non va trascurato, inoltre, come questa miscela – di vanità, mancanza di concretezza e mancanza di responsabilità – è l’essenza della demagogia.

Partiti rinnovati e leader autentici (maturi umanamente, eticamente e competenti) sono la priorità per rinnovare la politica. “Per adesso una cosa è certa – scriveva Weber – deve essere fatto un enorme lavoro di educazione politica: non c’è per noi, ognuno per quanto gli compete, dovere più serio dell’essere consapevoli di questo compito: lavorare assieme all’educazione politica della nostra nazione; e questo deve restare il fine ultimo anche della nostra scienza”.


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