Nessuno vuole un aumento del coinvolgimento militare in Iraq, ma tutte le forze politiche americane chiedono alla Casa Bianca di prendere una posizione più dura contro le milizie sciite legate ai Pasdaran che attaccano costantemente le forze armate americane in Iraq. Questione politica per il presidente Biden
“Il continuo assalto delle milizie sostenute dall’Iran al personale degli Stati Uniti in Iraq non può essere tollerato”, ha detto in una dichiarazione a Politico il senatore dell’Oklahoma Jim Inhofe, il massimo repubblicano della Commissione per i servizi armati del Senato: “Il presidente Joe Biden deve proporre una vera strategia per dissuadere e porre fine a questi attacchi, piuttosto che continuare il suo approccio al minimo-indispensabile che non riesce a dissuadere l’Iran o le sue milizie e mette le vite americane a maggior rischio”. Inhofe tocca un punto dolente per l’attuale amministrazione statunitense: come rispondere agli attacchi subiti in Iraq (e Siria) senza farsi coinvolgere troppo (militarmente) in certe dinamiche e tenerle sganciate da quelle che vedono Washington impegnato alla costruzione di una generale stabilità regionale che passa anche dalla ricomposizione del dossier come quello sull’accordo nucleare Jcpoa.
Sette attacchi solo nell’ultima settimana, in uno alla base Ain al Assad (un’istallazione nell’ovest iracheno usata dalle forze locali in condivisione gli americani e dagli inglesi) sono stati lanciati contemporaneamente 14 razzi. Bilancio: due militari americani feriti. Buono per tutti, anche politicamente per Biden che non si è trovato davanti al superamento di una linea rossa inevitabile: l’uccisione di un soldato americano. Il clima che si è innescato è molto teso, la possibilità che le cose possano finire in modo tragico esiste. Nel paese in cui l’Italia si appresta a consolidare la sua presenza armata andando a guidare una missione antiterrorismo della Nato, le forze americane subiscono attacchi da parte di milizie sciite connesse ai Pasdaran. Ossia, si sfoga lo scontro tra Washington e Teheran.
Come dimostra la dichiarazione di Inhofe, la questione è anche di carattere politico interno per gli Stati Uniti – sebbene va sottolineato che questo genere di azioni da parte dei miliziani sciiti iracheni va avanti da anni, anzi è aumentata sotto la “massima pressione” che l’amministrazione Trump ha imposto sull’Iran. Tuttavia la situazione sta mettendo alla prova la determinazione di Biden di allontanarsi dai decenni di guerra in Medio Oriente; necessità strategica che la sua amministrazione sente come via per potersi concentrare su faccende interne (la fine della pandemia e il recovery) ed esterne prioritarie, come il contrasto di potenze con Russia e Cina. Inoltre intacca le volontà del Congresso, che intende ridurre l’autorità del presidente nel poter colpire nella regione. Il rischio è che quella a bassa intensità con l’Iran, in Iraq, diventi una delle varie endless war di trumpiana memoria; una di quelle da cui diventa complicato ritirarsi in questo momento – in cui gli Usa stanno uscendo definitivamente dall’Afghanistan e rimodulando la presenza in Iraq chiedendo maggiore coinvolgimento alla Nato.
“Queste azioni all’interno dell’Iraq [sono] molto diverse da qualsiasi tipo di attacco all’Iran”, ha dichiarato in un’intervista il senatore Chris Van Hollen, membro della Commissione per le relazioni estere: “Il presidente non ha l’autorità per attaccare l’Iran, e in quella circostanza dovrebbe chiaramente venire al Congresso per chiedere l’autorizzazione”, però potrebbe chiedere al Congresso – sulla base del War Powers Act – di poter continuare a colpire le milizie responsabili di “atti ostili” (definizione giuridica). Il problema tecnico sta nel comprendere se di fatto questo crea nei confronti di quei gruppi armati iracheni reale deterrenza: per ora, nonostante Biden abbia già ordinato due attacchi, a febbraio e a giugno, e nonostante i suoi predecessori si siano mossi ugualmente, la deterrenza non è stata stabilita. Anzi, le milizie sciite si muovono per costruire proselitismo in modo ideologico e propagandistico: un attacco americano, portato o ricevuto, diventa un segno di orgoglio su cui fare narrazione.
Lo spazio è stretto. Se una parte dei generali suggerisce di risponde con molta forza, per mandare un messaggio ancora più chiaro, dall’altra parte i politici sono riluttanti davanti al rischio di finire impelagati in ulteriori impegni militari. I Repubblicani stanno già descrivendo le richieste di autorizzazioni all’uso della forza come un antipasto a quanto accaduto nel 2002 e nel 1991 (con le due invasioni americane dell’Iraq). E un tema per l’amministrazione Biden è anche la necessità di combattere la disinformazione sulla situazione che arriva sia dall’Iran/Iraq che dagli Usa. Di più: con il governo iracheno le cose non vanno benissimo. Baghdad ha criticato l’attacco americano contro le milizie sciite di giugno, definendolo una “chiara violazione della sovranità irachena”. I parlamentari hanno già chiesto il ritiro delle forze americane dal paese, e il governo locale si trova a dover gestire un equilibrio tra le richieste interne – influenzate dai contraltari politici delle milizie – e le necessità di mantenere i rapporti con gli Usa, forze militari che gli hanno permesso di contenere lo Stato islamico.