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Cosa contiene la nuova proposta di legge sulla privacy di Hong Kong

Con un brillante esempio di lawfare, Hong Kong utilizza la privacy per ridurre la trasparenza del controllo pubblico sui fatti del potere. Nulla vieta che gli Stati occidentali seguano la strada weaponizzare i diritti. E potrebbe non essere un male. L’analisi di Andrea Monti professore incaricato di Digital Law, università di Chieti-Pescara

La governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, ha annunciato una revisione della legge sulla privacy per sanzionare il doxing —la pubblicazione online di informazioni personali animata dall’intenzione di nuocere agli interessati.

La notizia ha provocato la reazione pubblica delle Big Tech statunitensi che hanno annunciato di valutare cessazione delle attività nel Porto Profumato. Le aziende sono, infatti, preoccupate di perdere o subire una limitazione della propria neutralità rispetto ai comportamenti degli utenti (tema discusso anche in ambito comunitario in relazione all’emanando Digital Service Act).

BIG TECH E CONDIZIONAMENTO DELLA SOVRANITÀ

La reazione delle Big Tech è un interessante esempio di intervento diretto tramite la leva economica nell’esercizio della sovranità di uno Stato in nome di interessi privati (e, detto per inciso, dovrebbe far suonare un campanello d’allarme per chi si troverà a dirigere l’Agenzia italiana per la cybersecurity). Dal punto di vista della protezione della sicurezza dello Stato, tuttavia, è di maggiore interesse il reale obiettivo della proposta di riforma.

IL CAMBIO DI RUOLO DEI DIRITTI FONDAMENTALI

In nome della privacy, infatti, la futura legge consentirà di sanzionare comportamenti analoghi a quelli rilevati durante le proteste del 2019: usare piattaforme di social networking per trasformare in bersagli operatori di polizia e funzionari dell’amministrazione giudiziaria incaricati di individuare e processare i manifestanti accusati di avere commesso atti illegali.
Nella risposta alle preoccupazioni espresse dalle aziende tecnologiche e dalla società civile, l’Autorità nazionale di protezione dei dati di Hong Kong giustifica la necessità della riforma normativa in termini più generali. Parla espressamente di weaponizzazione dei dati personali per istigare o agevolare atti di intimidazione e violenza contro determinati individui (dunque non necessariamente appartenenti all’amministrazione) e sostiene la necessità di ricevere poteri di polizia. In altri termini, con un capolavoro di sottigliezza giuridica, un diritto essenzialmente concepito per tutelare l’individuo dallo strapotere dello Stato diventa uno strumento nelle mani dello Stato per limitare i diritti dei cittadini.

NON SIAMO DI FRONTE A UN EVENTO ISOLATO

Non è la prima volta che si registra un fatto del genere. Per esempio, nella Mainland China il diritto alla trasparenza degli atti amministrativi è stato concepito per ottenere un maggior controllo sull’operato dei funzionari pubblici da parte dello Stato e non per offrire ai cittadini uno strumento per facilitare la partecipazione democratica alla vita del Paese. Altri esempi sono l’annunciata normativa sulla protezione dei dati personali e quella già in essere sulla sicurezza nazionale. La Cina ha fatto tesoro degli approcci statunitensi ed europei ed ha emanato norme che, in materia, affermano la propria applicabilità anche al di fuori dei propri confini.

CONCLUSIONI

La tendenza a concepire esplicitamente i diritti come componenti dell’arsenale (geo)politico di un Paese è oramai un fatto acquisito. Benché, per certi versi preoccupante, questa strategia potrebbe non essere del tutto condannabile. Sin dai tempi degli Alabama Claims decisi con un lodo nel 1872 è dimostrato che il diritto e le Corti possono svolgere un ruolo efficace nella risoluzione delle controversie fra Paesi e prevenire il degenerare dei conflitti.

Inserire nel processo di escalation delle relazioni internazionali una fase “tecnica” come quella di un processo può costituire un ulteriore elemento per disinnescare conflitti altrimenti destinati inevitabilmente ad esplodere. Sarebbe ingenuo pensare che questo approccio sia “la” soluzione alternativa all’uso della forza per raggiungere gli obiettivi dettati dall’interesse nazionale. Come dimostrano le mancate adesioni di Paesi importanti alla Corte penale internazionale, non necessariamente uno Stato può trovare accettabile il riconoscere autorità superiori. Ciò non toglie che abbandonare il concetto della “sacralità” del diritto in favore di un visione maggiormente pragmatica potrebbe essere una via da esplorare con maggiore attenzione di quanto già non accada.


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