I tavoli di crisi e le procedure di salvataggio delle grandi imprese in crisi sono ormai troppi. È urgente una riforma dell’amministrazione straordinaria della grande e grandissima impresa in crisi. L’intervento di Stanislao Chimenti, docente di Diritto commerciale e partner dello studio internazionale Delfino Willkie Farr&Gallagher
Il tema delle procedure di salvataggio delle grandi imprese in crisi resta al centro dell’agenda di governo; eppure la procedura Alitalia quater è a tutt’oggi sostanzialmente ferma e la procedura Ilva è ancora in una fase di sostanziale stallo. È poi noto che è stato disposto il rinvio del nuovo codice della crisi di impresa e che, secondo quando riportato dagli organi di stampa, una apposita commissione stia lavorando per apportare modifiche a una riforma di un Codice ancora non entrato in vigore. Infine, vale la pena osservare come, in ogni caso, tale riforma non riguarderà la disciplina dell’amministrazione straordinaria, cioè della crisi della grande e grandissima impresa insolvente.
Come noto, la matrice del sistema si rinviene tuttora nella legge c.d. Prodi bis (il d.lgs. 270/1999) la quale è finalizzata (i) al recupero dell’equilibrio economico finanziario della grande impresa in stato di insolvenza (ii) al soddisfacimento, ancorché parziale, dei creditori. Sulla scia di questa esperienza, e sull’onda del caso Parmalat, si è successivamente pervenuti alla legge Marzano (legge 18 febbraio 2004, n. 39), destinata al “salvataggio” delle grandissime imprese insolventi. Il tema del tentativo di salvataggio della grande e grandissima impresa è un tema evidentemente politico: visto il tessuto economico sociale del Paese, la crisi di una grande impresa si ripercuote in maniera devastante non solo sul singolo comparto in cui il soggetto opera direttamente, ma anche sull’indotto, con conseguenze sociali spesso drammatiche. Si pone allora il tema di coniugare due istanze spesso in conflitto: l’esigenza della continuità aziendale e la tutela dei creditori (e degli stakeholder). Ciò spiega perché, se la dichiarazione di insolvenza viene pronunciata dal Tribunale, la nomina dei commissari straordinari destinati a rilanciare l’impresa è prerogativa che la legge riserva al ministero dello Sviluppo economico.
Nell’impianto normativo della Prodi bis e della Marzano il ruolo centrale della funzione di salvataggio è comunque rappresentato dal programma di recupero dell’equilibrio economico finanziario dell’impresa.
In verità un simile programma non presenta natura unitaria, ma binaria: il recupero dell’equilibrio economico-finanziario, infatti, può essere perseguito o attraverso un programma di cessione di complessi aziendali (e/o di società), ovvero attraverso un vero e proprio progetto di rilancio industriale e di turn around (comune è la finalità di soddisfare, almeno in parte, il ceto creditorio). La prima opzione presenta una natura evidentemente liquidatoria: essa presuppone, sì, un’attenta analisi industriale da parte dei commissari straordinari, ma in effetti si risolve nella razionalizzazione della struttura societaria e, il più delle volte (anche se non necessariamente), nella cessione di asset non più strategici per l’impresa, ovvero scarsamente profittevoli, ovvero in perdita.
Più complessa, ed essenzialmente diversa, è l’operazione di rilancio propriamente detta. In questo caso il commissario straordinario è chiamato a svolgere un’operazione ben più profonda e spesso radicale che, in estrema sintesi, potrebbe descriversi come di “ricollocamento efficiente sul mercato”: se il mercato ha selezionato (in senso darwiniano) l’impresa, il commissario straordinario è chiamato a modificare quell’impresa in modo tale da riportarla sul mercato stesso e renderla nuovamente competitiva e profittevole. Si rende pertanto necessaria l’elaborazione di un piano industriale strategico di visione prospettica, pluriennale, pur nel quadro dei vincoli, di fatto e di diritto, che sono imposti dalla situazione di insolvenza.
Ma se questo è, dalla quasi incommensurabilità fra programma di cessione e programma di rilancio scaturiscono almeno due ordini di considerazioni.
La prima: il commissario straordinario che dovrà realizzare un programma di rilancio dovrà possedere requisiti soggettivi e competenze anche di natura marcatamente imprenditoriali, a differenza del commissario straordinario che, invece, sia chiamato unicamente a realizzare un programma di cessioni e dismissioni.
La seconda: il programma di rilancio deve necessariamente essere coordinato e coerente almeno con le linee guida della politica industriale del Paese nel settore di riferimento in cui la grande impresa opera. Il più delle volte si tratterà di soggetti che operano in settori ritenuti strategici per l’intero sistema Paese: energia, trasporti, costruzioni, moda, turismo, food, siderurgia. Non a caso il ministero dello Sviluppo economico e il ministero del Lavoro sono impegnati su dossier e tavoli di crisi che sono aperti per ciascuno di questi comparti da molto tempo (per tutti, come detto, il caso Alitalia). E qui, per così dire, molti nodi vengono al pettine: il sistema normativo attuale, infatti, riserva come detto all’Amministrazione la fase di nomina del commissario straordinario, ma poi finisce quasi del tutto per disinteressarsi della sua attività.
È bene chiarire: non si tratta certo di avallare politiche stataliste e dirigiste che, oltretutto, sarebbero palesemente incompatibili con la normativa europea, in primo luogo quella relativa al divieto di aiuti di Stato. È però indiscutibile che il programma di rilancio di una grandissima impresa insolvente, predisposto oltretutto da un soggetto nominato dall’autorità amministrativo/politica, non possa rappresentare un corpo estraneo rispetto alla politica economica generale del Paese. Tale programma, invece, dovrà essere necessariamente coordinato con le linee guida generali di settore per ragioni semplicemente intuitive. Sarà pertanto necessaria, tra l’altro, una puntuale attività di controllo e verifica da parte del ministero che dovrà attenere non tanto e non solo alla correttezza delle procedure, quanto, piuttosto, all’attuazione/attuabilità del programma e alle sue eventuali modifiche in itinere, in un dialogo costante e dinamico che possa tenere tempestivamente conto del mutare delle condizioni economico-sociali generali del Paese e del settore di riferimento.
Sotto questo profilo, la disciplina dell’amministrazione straordinaria rappresenta una peculiarità Italiana: basti pensare che il diritto statunitense non conosce una procedura ad hoc istituita su requisiti dimensionali e che anche il rilancio di big corporation americane è stato attuato tramite il Chapter 11 del Bankruptcy Code che prevede una disciplina sul cui modello è stato riscritto il concordato preventivo nel diritto italiano. Anche il diritto tedesco, quello francese e quello spagnolo si sono di recente dotati di istituti alternativi alla mera liquidazione fallimentare e che sono sempre più improntati a logiche negoziali e di accordo tra il debitore e il ceto creditorio, finalizzate a coniugare l’esigenza di continuità aziendale con la domanda di tutela dei creditori. Tuttavia, nessuno di questi strumenti sembra possedere quella natura “politica” nei termini che si sono poc’anzi illustrati in relazione all’amministrazione straordinaria di diritto italiano.
La sfida che il legislatore italiano è chiamato ad affrontare, dunque, è quella di rendere il meccanismo più efficiente e coerente con gli obiettivi di sviluppo economico del governo, fino a renderlo uno strumento efficace di politica industriale.