Al momento l’ingresso di Belgrado in Europa appare ancora di là da venire, proprio a causa dello stallo dei negoziati serbo kosovari. Intanto però continua il dialogo (e non solo) sia con la Russia che con la Cina. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
La Serbia attende dal 2012 che l’Unione europea dia una risposta alla sua richiesta di diventare membro a tutti gli effetti dell’Unione stessa. Nonostante estenuanti negoziati, questa risposta tarda a venire e la causa principale dello stallo ha un nome preciso: il Kosovo. L’Unione, prima di accettare la richiesta di adesione da parte di Belgrado, pretende una soluzione definitiva dei rapporti tra Serbia e quella regione che da essa si è distaccata dopo il conflitto del 1999, quando in soccorso degli albanesi kosovari si mobilitò la Nato e che nel febbraio del 2008 ha proclamato la propria indipendenza.
La Serbia non ha mai riconosciuto la nascita della Repubblica kosovara, come del resto non l’hanno riconosciuta molti altri importanti Paesi: su 193 membri delle Nazioni Unite, solo 110 Stati hanno accettato formalmente la nascita della nuova repubblica mentre i restanti, tra cui Russia, Cina, Spagna, Grecia e Romania – per citarne solo i più importanti – si rifiutano di riconoscere l’indipendenza degli albanesi di quella che un tempo era una regione della Serbia.
L’Unione europea non può accettare che uno dei suoi membri, come sarebbe il caso della Serbia se la sua candidatura venisse accettata, non sia di fatto in grado di garantire il controllo delle proprie frontiere. Dalla fine della guerra tra Kosovo e Serbia non esiste infatti una chiara e controllata linea di confine tra i due Paesi. Per evitare continui scontri Pristina e Belgrado hanno di fatto lasciato aperta la frontiera, chiudendo tutti e due gli occhi sull’”economia del contrabbando” che prospera su entrambi i lati del confine.
In questa situazione, qualora la Serbia divenisse membro a tutti gli effetti dell’Unione europea, si creerebbe una falla nelle frontiere di tutta l’Area Schengen, in quanto chiunque, passando dal Kossovo potrebbe poi trasferirsi in tutti i Paesi dell’Unione. Questo non è l’unico ostacolo all’adesione di Belgrado all’Unione: molte cancellerie europee guardano con diffidenza alla politica estera serba, che fin dai tempi della dissoluzione della Federazione Jugoslava ha mantenuto un rapporto privilegiato con la Russia, rifiutando di aderire al programma di sanzioni decretate dall’Europa nei confronti del Cremlino dopo l’annessione della Crimea ai danni dell’Ucraina.
Durante la pandemia da Covid 19, la Serbia ha addirittura accettato di produrre direttamente nei propri laboratori il vaccino russo “Sputnik V”, snobbando platealmente l’offerta vaccinale di Bruxelles. Per gli americani e per alcuni importanti Stati europei, l’ingresso formale della Serbia nell’Unione potrebbe spostare verso oriente il centro di gravità della geopolitica del Vecchio Continente aprendo, via Belgrado, un canale privilegiato di dialogo tra Mosca e Bruxelles.
Questa possibilità, però, non è vista con sfavore dalla Germania che nelle intenzioni del Presidente della Cdu, Armin Laschet, prossimo candidato alla successione ad Angela Merkel alla guida della Cancelleria Federale, ha di recente dichiarato di essere favorevole a una politica estera che “si sviluppi in multiple direzioni”, avvertendo i partner occidentali del pericolo derivante “dall’interruzione del dialogo con la Russia e con la Cina”. In proposito, Laschet ha pubblicamente dichiarato che “la politica estera deve essere sempre incentrata sulla ricerca di modalità di interazione, inclusa la cooperazione con paesi che hanno modelli sociali differenti dai nostri, come la Russia, la Cina e le nazioni del mondo arabo”. Oggi non sappiamo se Laschet in autunno assumerà la guida del Paese più potente dell’Unione, ma quel che è certo è che l’eventuale ingresso formale della Serbia nei ranghi dell’Unione potrebbe costringere l’Europa a rivedere alcune delle sue posizioni in politica estera, sotto la spinta di un nuovo asse serbo-tedesco.
Al momento comunque l’ingresso di Belgrado in Europa appare ancora di là da venire, proprio a causa dello stallo dei negoziati serbo kosovari.
Nel 2013, Pristina e Belgrado hanno siglato il cosiddetto “Patto di Bruxelles”, un accordo ottimisticamente ritenuto dalla diplomazia europea in grado di portare rapidamente a una normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, in vista di un reciproco riconoscimento politico e diplomatico. Parte integrante dell’accordo era, da un lato, l’impegno delle autorità di Pristina a riconoscere un alto grado di autonomia amministrativa alle municipalità kosovare abitate da una maggioranza serba e, dall’altro lato, la collaborazione da parte dei serbi nella ricerca dei resti delle migliaia di albanesi kosovari presumibilmente eliminate dalle truppe di Milosevic durante la repressione che precedette la guerra del’99.
Nessuno dei due impegni è stato finora rispettato e, durante l’incontro che si è tenuto a Bruxelles lo scorso 21 luglio tra il presidente serbo Alexander Vucic e il primo ministro del Kosovo Albin Kurti, sarebbero volate parole grosse e accuse reciproche sulla mancata implementazione del “Patto” al punto che il responsabile della politica estera europea, Josep Borrell, ha pubblicamente chiesto alle due parti di “chiudere il capitolo di un passato doloroso attraverso un accordo legalmente vincolante sulla normalizzazione delle relazioni reciproche, in vista della realizzazione di un futuro europeo per i propri cittadini”. Questo futuro appare quantomeno nebuloso ove si consideri che la Serbia, di fatto, si rifiuta di riconoscere il valore legale di lauree e diplomi rilasciati anche a membri della minoranza serba del Kosovo dalle autorità accademiche kosovare.
Al momento, comunque, in Europa e oltreoceano entrambi i contendenti si stanno assicurando supporti e alleanze. La Serbia è guardata con favore dal presidente di turno dell’Unione, lo sloveno Janez Jansa, che è un sostenitore del suo ingresso perché “questo sancirebbe in modo definitivo la dissoluzione della Federazione jugoslava”. Anche la stragrande maggioranza dei partiti di destra europei, a partire dal “Rassemblement National” francese all’ungherese “Fydesz”, approvano la richiesta di adesione di Belgrado e corteggiano apertamente le minoranze serbe che vivono nei rispettivi Paesi, mentre l’amministrazione Biden, dopo gli anni del disimpegno americano dai Balcani dai tempi di Bush, di Obama e di Trump, avrebbe deciso di riportare la regione nella lista degli impegni prioritari di politica estera, affidando il “Dossier Serbia” al sottosegretario agli Affari Europei ed Eurasiatici, Matthew Palmer, diplomatico di lungo corso e di grande esperienza.
Per sostenere la candidatura serba di adesione all’Europa, Belgrado ha schierato anche dei lobbisti ufficiali. Nello scorso mese di giugno la società di lobbying “ND Consulting” di Natasha Dragojilovic Ciric si è ufficialmente registrata nel cosiddetto “albo della trasparenza” di Bruxelles per promuovere il sostegno alla candidatura di Belgrado. La ND è finanziata da un gruppo di donatori internazionali e si avvale della consulenza di Igor Bandovic, già ricercatore dell’americana Gallup e capo del “Belgrade Centre for Security Policy”, dell’avvocatessa Katarina Golubovic del “Comitato dei Giuristi per i diritti umani” e di Jovana Spremo, già consulente dell’Osce.
Queste sono le truppe legali schierate da Belgrado a Bruxelles per supportare la sua richiesta di integrazione formale in Europa, ma nel frattempo la Serbia non trascura le sue alleanze “orientali”. All’inizio di questo mese, il capo dell’SVR, il Servizio segreto russo di intelligence estera, Sergey Naryshkin, ha compiuto una visita ufficiale a Belgrado, poche settimane dopo la conclusione di un’esercitazione militare congiunta tra forze speciali russe (gli “Spetznaz”) e forze speciali serbe.
Nella capitale serba Naryshkin non ha incontrato soltanto il suo omologo serbo Bratislav Gasic, capo della “Bezbednosno Informativna Agencija” il piccolo ma potente Servizio segreto serbo, ma è stato anche ricevuto dal presidente della Repubblica Alexander Vucic allo scopo di rendere pubblica la vicinanza tra Serbia e Russia.
I tempi della visita coincidono con la ripresa dei colloqui a Bruxelles sull’adesione della Serbia all’Unione e possono essere chiaramente considerati come strumentali all’esercizio di una sottile pressione diplomatica tendente a convincere l’Unione dell’eventualità che, in caso di rifiuto, Belgrado decida di voltare definitivamente le spalle all’Occidente, per allearsi con un oriente evidentemente più disponibile a trattare i serbi con quella dignità e attenzione che un popolo orgoglioso e tenace ritene di meritare.
Una notizia che conferma che la Serbia è pronta a voltare le spalle all’Ovest, qualora l’Europa continui a procrastinare la decisione sul suo ingresso nell’Unione: la Cina ha firmato nei giorni scorsi un accordo di partnership con Belgrado nel campo della ricerca farmaceutica, un accordo che fa della Serbia uno dei maggiori, attuali, partner commerciali di Pechino sul Continente europeo.