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Città più sicure o più spiate da Pechino? Il report svedese Sccs

“Strumenti anti-pandemia per città sicure”. Così i media di Stato hanno spinto la narrazione e l’export delle tecnologie cinesi per le smart city. Ma ci sono rischi per la privacy (e non solo), spiega un report svedese. Una sfida anche per l’Italia

Pechino ha utilizzato la pandemia Covid-19, sulla cui origine è atteso entro fine mese un rapporto dell’intelligence statunitense richiesto dal presidente Joe Biden, come “un’opportunità per promuovere le tecnologie nazionali di smart city, esportando tali sistemi in tutto il mondo”. Cruciale il ruolo dei media di Stato, che hanno spinto la cosiddetta “soluzione cinese” alla lotta alla pandemia – quella fatta di raccolta e analisi di big data, telecamere di sorveglianza, tecnologia di riconoscimento facciale e app di tracciamento – definendola una delle più efficienti al mondo.

È quanto emerge da un rapporto pubblicato dallo Swedish Center for China Studies, centro studi svedese (come Ericsson) nato l’anno scorso con il contributo dell’industria locale, che pone l’accento su un aspetto: “Il modello di smart city promosso dal partito-stato cinese”, spesso presentato anche come safe city, “differisce molto da quello dell’Unione europea, in quanto si concentra sulla sorveglianza e la sicurezza pubblica” a differenza quello definito “human-centred” dalla Commissione presentando nei mesi scorsi il piano 2030 Digital Compass e ribadito dalla toolbox approvata ad aprile. 

Inoltre, il documento evidenzia (i soliti) tre rischi che la tecnologia cinese presenterebbe. Primo: può “aiutare a rafforzare i sistemi autoritari”, soprattutto se si pensa al piano China Standards 2035 in cui sono al centro temi come blockchain, cloud computing, 5G, intelligenza artificiale e sistemi informatici geografici. Secondo: “Lo Stato cinese potrebbe ottenere l’accesso ai dati sensibili” tramite le leggi sull’intelligence (2017), sulla sicurezza informatica (2016) e sulla sicurezza nazionale (2015), le stesse poste all’attenzione del governo italiano dal Copasir a fine 2019, secondo le quali “le aziende cinesi potrebbero essere costrette a prendere decisioni che compromettono l’integrità dei dati dei loro clienti”. Terzo: “Le infrastrutture critiche potrebbero diventare più vulnerabili” come suggeriscono le motivazioni australiane alla scelta di bandire Huawei e Zte dalla rete 5G.

Quanto al primo aspetto, il rapporto sottolinea un elemento già più volte presentato su Formiche.net: la crescente influenza cinese sugli organismi internazionali di standardizzazione, come l’Organizzazione internazionale per la standardizzazione (Iso), la Commissione elettrotecnica internazionale (Iec) e l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), agenzia delle Nazioni Unite guidata dal 2014 dal cinese Zhao Houlin. Basti pensare che nel marzo 2020, l’Itu ha adottato nuovi standard per le smart city sul modello di Xiong’an, nella provincia cinese di Hebei. Oltre a ciò, c’è un tema legato al controllo della narrazione nella definizione degli standard internazionali: nel settembre 2020, il governo cinese ha lanciato un’“iniziativa globale sulla sicurezza dei dati”, che ha sottolineato il diritto degli Stati di governare i dati come vogliono, sulla base del “rispetto reciproco”. Parole che ricordano quegli inviti alla non ingerenza sui cosiddetti affari interni – come Xinjiang, Hong Kong e perfino Taiwan – rivolti all’Occidente che difende la minoranza uigura, gli attivisti pro democrazia e l’indipendenza dell’Isola di Formosa.

Un rapporto della U.S.-China Economic and Security Review Commission del gennaio 2020 forniva qualche numero di contesto: 398 casi di tecnologie smart city esportate da 34 aziende cinesi in 106 Paesi, con la Germania capofila dei progetti in Europa. 

Il documento svedese ricorda quando, era il marzo 2020 cioè agli albori della pandemia Covid-19, Huawei aveva annunciato di aver donato apparecchiature di rete wireless agli ospedali italiani, alimentando le preoccupazioni della politica per i temi legati alla sicurezza. Non cita, invece, questioni, oltre a quella del 5G, come i termoscanner Dahua installati a Palazzo Chigi, le telecamere Hikvision nelle Procure e (non solo Hikvision) in diverse città italiane (compresa la capitale Roma) o le mire di Huawei su Rai Way – temi più volte affrontati su Formiche.net.

“Indirettamente, in una situazione in cui le aziende tecnologiche cinesi potrebbero dominare i futuri mercati europei e globali per le tecnologie delle smart city, gli europei sarebbero dipendenti dalla Cina per le infrastrutture critiche che permettono la loro vita quotidiana”, spiega il rapporto. Che si chiude così: “Le tecnologie utilizzate in Europa sarebbero anche modellate sulla base delle concezioni cinesi delle smart city, il che significa che la privacy e i diritti individuali sarebbero gradualmente erosi”.

La fase dei soli divieti, però, sembra essere superata per gli Stati Uniti e l’Europa. È scoccata l’ora degli investimenti sulla scia dell’uscita e dalla ripartenza dalla pandemia. Il rischio, altrimenti, è che poi sia troppo tardi.

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