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Patto di stabilità, occhio al ritorno dei falchi rigoristi. L’analisi di Polillo

Il Ppe sta lavorando su una modifica del Patto di stabilità e crescita. Come ha spiegato Draghi serve una “risposta credibile” per “migliorare la capacità della zona euro di rispondere alle crisi” e rafforzare ulteriormente “l’indipendenza della Banca centrale europea”

Da quel che si è potuto vedere, la bozza predisposta dal Partito popolare europeo sull’eventuale modifica del Patto di stabilità e crescita può costituire una base di discussione. È soltanto un primo giudizio che andrà confermato non appena quella bozza diverrà definitiva. Quindi adelante, Pedro, ma con juicio, come faceva dire Alessandro Manzoni al gran cancelliere di Milano Antonio Ferrer durante la peste. Qualcosa che, da vicino, ci ricorda l’origine di tutti i nostri mali più recenti, nella devastazione economica che ha accompagnato lo sviluppo della pandemia.

La sospensione delle vecchie regole di finanza pubblica, fino alla fine del 2022, ne era stata una conseguenza. Rispettando quei vincoli, come ha ricordato recentemente il presidente del Consiglio Mario Draghi, avremmo trasformato la recessione indotta dalla diffusione del virus in una depressione. “Con conseguenze disastrose per il futuro non solo dell’economia, ma dell’intero Paese”. Tesi, quest’ultima, più subita che condivisa in molte cancellerie europee, dove i fasti della vecchia austerity sono ancora celebrati con rimpianto.

Nello stesso documento del Partito popolare europeo, per esempio, si parla di quegli anni – il 2012-2019 – come di un “contesto macroecomico relativamente favorevole”. Tesi indubbiamente vera per alcuni Paesi europei. Ma difficilmente sostenibile per l’intera Eurozona. Nei grandi equilibri internazionali, il suo peso specifico è ulteriormente diminuito a favore degli Stati Uniti e della Cina. Continuando di questo passo, alle difficoltà politiche dimostrate – si pensi soltanto al Mediterraneo dove spadroneggiano russi e turchi – si aggiungerà una crescente irrilevanza economica.

Se quindi si ragiona di Europa e non della dimensione autarchica di un singolo Paese, c’è materia di riflessione, che nasce dal confronto sistemico con le altre grandi aree dell’Occidente. Le politiche seguite negli Stati Uniti per far fronte alle due crisi del Terzo millennio (quella del 2007 e quella ancora in atto) sono state di gran lunga più coraggiose di quelle europee. E i risultati si sono visti, in termini di maggiore crescita del prodotto interno lordo, tasso di occupazione, livello di benessere raggiunto. Alla luce di questa comparazione, i limiti della vecchia cara austerity appaiono in tutta la loro evidenza.

Ne deriva che il primo rischio da evitare è il possibile stallo. Un tiro alla fune, tra le opposte posizioni, che potrebbe bloccare ogni proposta di riforma facendo, semplicemente, rivivere le regole del passato. È il pericolo avvertito dal presidente Draghi quando, accennando al Patto di stabilità, invitava tutti a “ragionare” al fine, di individuare una “risposta credibile” per “migliorare la capacità della zona euro di rispondere alle crisi” e rafforzare ulteriormente “l’indipendenza della Banca centrale europea”.

Il documento del Partito popolare europeo sembra cogliere questa preoccupazione. Riconosce la necessità di fissare percorsi di aggiustamento specifici per i singoli Paesi sulla “base di accordi individuali tra la Commissione e lo Stato membro”. Sostituendo le vecchie pagelle delle raccomandazioni con l’indicazione più circoscritta e puntuale delle cose da fare. Rafforzando, al tempo stesso, “il legame tra il rispetto del quadro macroeconomico e l’accesso a determinati strumenti di bilancio dell’Unione europea”. Formula ancora ellittica, che sembrerebbe indicare finanziamenti particolari come contropartita delle riforme da realizzare. Bene comunque la riscoperta del legame che deve intercorrere tra gli andamenti dell’economia reale e il quadro di finanza pubblica.

Quadro, quest’ultimo, che va semplificato. Via quindi tanti orpelli statistici, il più delle volte discutibili e incomprensibili, come l’output gap (calcolo della differenza tra lo sviluppo potenziale e quello reale) o il deficit strutturale. Per limitarsi invece alla cosiddetta “regola della spesa”. Porre un limite, cioè, a un suo tasso di incremento, al di sotto del tasso di crescita del prodotto interno lordo nominale. Proposta che, tuttavia, presenta un limite: quello di non distinguere tra spesa corrente e investimenti. Quindi, in prospettiva, tra “debito buono” e “debito cattivo”.

Sul piano istituzionale, invece, la proposta è ben più pesante. E quindi non mancheranno le levate di scudi. Si tratterebbe di affidare il controllo sui bilanci pubblici dei singoli Stati a un organismo tecnico – l’European fiscal board – destinato a esautorare la Commissione europea, ritenuta troppo sensibile al condizionamento dei singoli Stati. Si potrà fare? Il salto è evidente: una sorta di eutanasia della politica. Potrebbe anche essere. Ma solo se la politica recupererà lo spazio che merita nella governance complessiva del processo. Consentendo all’European Fiscal Board di poter svolgere un necessario ruolo di semplice supporto.

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